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La rubrica Il Punto di Vista è a cura dello scrittore e giornalista Max del Papa e Beatrice Silenzi, direttore responsabile di Fabbrica della Comunicazione.
Il disincanto e la fine delle illusioni
C’è un momento, nella vita di chi racconta il mondo, in cui il desiderio di dire diventa l’unica forma di sopravvivenza. Per Massimo Del Papa, giornalista, scrittore e voce caustica del nostro tempo, questo momento si chiama “Schiavi”, titolo del suo libro e ora anche di un monologo teatrale che sta portando in scena in tutta Italia, a partire da Tolentino, sabato 25 ottobre.
Un monologo che non è uno sfogo, ma un requiem: la confessione lucida di chi guarda l’umanità e non ci crede più.
Il disincanto come resistenza
Nel dialogo con Beatrice Silenzi, Del Papa entra in scena come sempre: caffè alla mano, sarcasmo vivo, parole che tagliano come lame affilate. “Io non ho voglia di fare niente”, dice, ma in realtà fa moltissimo: mette in crisi, provoca, obbliga a pensare.
Non è apatia, è disincanto.
È la resa di chi ha guardato troppo a lungo negli occhi del mondo e ne ha visto la falsità. “Non me ne frega più niente della cronaca, della politica, del giornalismo: tutti recitano, nessuno vive.”
Il tono è ruvido, ma dietro la durezza si intravede una forma di onestà radicale. Quella che non cerca applausi né consensi, ma pretende verità.
“Il giornalismo musicale fatto da gente che non sa scrivere per gente che non sa leggere che parla di gente che non sa suonare”, ironizza. Poi si ferma: “Vale anche per quello non musicale.”
Una stoccata a un sistema dell’informazione che si è autoannientato nel rumore di fondo, dove la competenza è stata sostituita dall’urlo e la dignità dal like.
Ma il cuore del discorso va oltre il giornalismo: tocca l’uomo.
“Disprezzo il genere umano quasi al completo”, dice senza mezzi termini. Una dichiarazione estrema, che però nasconde una ferita profonda.
Non è odio, è delusione.
È il dolore di chi credeva ancora nella possibilità del bene e si ritrova davanti un mondo che glorifica il male.
La sua diagnosi è spietata: “Siamo già schiavi, ma non lo sappiamo. Non siamo più padroni di niente, nemmeno delle parole.”
È un tema che attraversa tutto il monologo Schiavi, dove la malattia personale – “un vecchio di sessant’anni col cancro”, dice riferendosi a sé stesso – si intreccia alla malattia del mondo: una società corrotta, anestetizzata, in cui la libertà è diventata una parola proibita.
“Ho perso lavori per aver detto quello che penso. Mi hanno augurato la morte perché ho messo in relazione la mia malattia con i vaccini. Mi hanno tagliato fuori. Eppure sono ancora qui.”
“La domanda che mi fanno sempre è: ci salveremo? Io no, certamente no.”
Del Papa non cerca consolazioni né consolatori.
Non crede più alla politica, alla democrazia, alla Chiesa. “Hanno steso i tappeti in Vaticano per far pregare gli islamici.
È il simbolo di una resa. Se perfino la Chiesa si arrende, chi difende ancora qualcosa?”
Il suo non è razzismo né chiusura, ma un grido di allarme contro l’autodistruzione dell’Occidente: un mondo che, per paura di sembrare esclusivo, ha perso se stesso.
Anche la guerra, per lui, è ormai solo una follia globale: “Oggi se dai un drone a un bambino può buttare giù una città. E nessuno se ne accorge.
Siamo seduti su una bomba e fingiamo che sia un parco giochi.”
Le sue parole suonano come un atto d’accusa contro l’umanità intera, che ha sostituito la coscienza con la tecnologia e la pietà con l’algoritmo.
La malattia come metafora del mondo
Il monologo “Schiavi” è un racconto sulla fine delle illusioni. Non solo politiche o sociali, ma esistenziali.
“La mia malattia organica si specchia in una malattia sociale”, spiega.
“Io mi arrendo, ma non mi rassegno.”
È questa la chiave del suo teatro civile: non la disperazione, ma la lucidità.
“Non posso fingere speranza quando tutto intorno frana. Non posso mentire a me stesso né agli altri. Forse è l’unica forma di dignità che mi resta.”
Cita Pasolini: “Ho cancellato dal vocabolario la parola speranza.” E aggiunge: “Io ho cancellato anche la disperazione.”
Perché, alla fine, la vera libertà consiste nel guardare il buio senza abbassare lo sguardo.
In mezzo a tanto disincanto, resta un’immagine luminosa.
“Io non sopporto l’umanità, ma la persona malata mi strazia. E gli animali mi salvano.”
I suoi gatti e i suoi cani diventano il simbolo di una tenerezza che resiste, di una vita che continua a dare senso anche quando il mondo lo ha perso.
“Quando stavo morendo, gli unici che non sono spariti sono stati loro. Venivano sul letto, sapevano che stavo morendo. Non è romanticismo, è realtà.”
È un modo per dire che, forse, l’ultima forma di umanità si trova proprio fuori dall’uomo.
Tra una citazione di Frank Zappa e una di Papa Giovanni XXIII, tra una battuta fulminante e un’amarezza profonda, Massimo Del Papa costruisce un affresco di verità scomode, un urlo d’amore travestito da disprezzo.
Perché, in fondo, solo chi ama profondamente l’umanità può permettersi di dire che non ci crede più. E forse, proprio in quel disincanto, si nasconde l’ultima speranza che resta.
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