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La rubrica Spoiler – podcast è cura della giornalista Beatrice Silenzi – direttore responsabile di Fabbrica della Comunicazione.
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Il Grande Dittatore: Chaplin tra Satira, Umanità e la Sfida al Totalitarismo
“Il grande dittatore” di Charlie Chaplin, distribuito nel 1940, in un’Europa già dilaniata dalla guerra, si erge non solo come testimonianza della genialità di Chaplin, ma anche come atto di coraggio e preveggenza in un’epoca di crescente oscurità.
Come affermato dallo stesso Chaplin al “New York Times” nell’ottobre del 1940, il film non è “un film di propaganda”, ma “la storia del piccolo barbiere ebreo e del tiranno a cui, per caso, assomiglia. È la storia dell’ometto di sempre che ho raccontato per tutta la vita”.
La genesi del film è avvolta in una curiosa controversia legale. Accusato di plagio dallo scrittore Konrad Bercovici, Chaplin difese la sua idea sostenendo che l’ispirazione proveniva dai media, che già dal 1933 giocavano sulla somiglianza tra Charlot e il Führer.
La messa al bando di “Tempi moderni” da parte di Hitler nel 1936, proprio a causa di questa somiglianza, non fece che alimentare l’ironia e la consapevolezza collettiva di un’immagine condivisa, destinata a diventare il fulcro del suo nuovo progetto.
“Il grande dittatore” segna una svolta significativa nei metodi di lavoro di Chaplin. È il suo primo film sonoro, un passaggio che richiese una sceneggiatura dettagliata e una meticolosa fase preparatoria, ben diversa dal suo approccio più improvvisato del passato.
La lavorazione, iniziata nel settembre 1939, durò ben 559 giorni, un periodo insolitamente lungo, ma che rifletteva il perfezionismo maniacale del regista, il quale finanziò l’intero progetto di tasca propria per preservare la totale libertà creativa.
Il film arrivò nelle sale di New York il 15 ottobre 1940, in un contesto internazionale drammatico. L’Inghilterra era in guerra con la Germania nazista, mentre gli Stati Uniti mantenevano una posizione di neutralità.
In questo clima conservatore, la decisione di Chaplin di realizzare un film che attaccava apertamente il nazismo fu un atto di audacia straordinaria.
Nonostante le intimidazioni del console tedesco e le preoccupazioni degli studios di perdere il mercato tedesco, Chaplin proseguì imperterrito.
Anni dopo, nella sua autobiografia, avrebbe dichiarato che non avrebbe mai realizzato il film se avesse saputo la portata delle atrocità nei campi di concentramento. Nonostante non vinse alcun Oscar, il film divenne un simbolo di resistenza, anche se la sua distribuzione fu limitata o censurata in molti paesi europei fino alla fine della guerra. In Italia, ad esempio, fu distribuito solo nel 1949 con tagli significativi.
Il cuore del film risiede nella sua tagliente satira contro i regimi totalitari. Chaplin riduce il dittatore Hynkel a una figura grottesca, un buffone megalomane circondato da gerarchi ridicoli e soldati ottusi.
Il film sbeffeggia l’ideologia razzista con marce cantate su sciocche filastrocche, sostituisce la svastica con una “doppia X” e mostra il dittatore che danza con un pallone mappamondo, simbolo della vacuità delle sue ambizioni globali che, inevitabilmente, scoppiano.
Chaplin, con geniale intuizione, anticipa e smonta la retorica del potere che Hitler stesso aveva compreso a fondo, concentrandosi più sulle immagini e sui simboli che sulle parole.
Hynkel è ritratto come un personaggio dalle movenze e dalla gestualità esasperate, che arringa le folle con un grammelot incomprensibile, in cui conta più il volume e l’intonazione roboante che il senso.
Ma oltre alla satira politica, “Il grande dittatore” esplora in profondità il tema dell’identità e del doppio, attraverso i due personaggi interpretati da Chaplin: il tiranno Hynkel e il piccolo barbiere ebreo.
Questo espediente narrativo, tipico della commedia degli equivoci, permette al film di analizzare come le identità possano essere imposte, scambiate e deformate.
Da un lato, l’identità imposta dal dittatore che riduce gli individui a numeri; dall’altro, l’identità autentica del barbiere, che pur privo di nome, mantiene la sua umanità attraverso le relazioni e i valori morali. Il culmine di questo conflitto è lo scambio di persona finale, dove il barbiere, per fortuita somiglianza, sostituisce il dittatore e pronuncia il celebre discorso sull’umanità e la pace.
Questo monologo finale, tra i più iconici della storia del cinema, non è solo un messaggio di speranza e fratellanza, ma anche una potente riflessione sulla retorica del potere e la manipolazione delle masse.
Il contrasto tra la retorica “dall’alto” del dittatore, basata sulla paura e l’odio, e quella “dal basso” dei personaggi positivi, fatta di solidarietà e verità semplice, attraversa l’intero film.
Chaplin mette in scena le adunate oceaniche come parodie dirette dei congressi nazisti, con folle che scattano in saluti sincronizzati e osannano slogan che non comprendono. Tuttavia, in questo monologo, il barbiere offre una retorica alternativa, un invito all’unità e alla democrazia, un’esortazione a non cedere alla brutalità e all’odio.
La struttura narrativa del film, che alterna abilmente il registro comico a momenti di sottile tragicità, si sviluppa attraverso due vicende parallele – quella del palazzo e quella del ghetto – che convergono nell’epilogo. Questa bipartizione riflette due “universi morali” opposti: il mondo malvagio del dittatore e il microcosmo degli oppressi che cercano di sopravvivere.
Curiosamente, la vita di Chaplin si intrecciava con quella di Hitler anche attraverso coincidenze anagrafiche: entrambi nati nell’aprile del 1889, sebbene a pochi giorni di distanza.
Entrambi provenienti da contesti proletari disagiati, con ambizioni artistiche inespresse. Ma mentre Hitler generava orrori, Chaplin, l’uomo che è stato il clown più celebre, lo sfidava apertamente.
Con “Il grande dittatore”, Chaplin non solo ha creato un’opera d’arte senza tempo, ma ha anche dimostrato il potere del cinema e della satira nel resistere all’oppressione e nel celebrare l’ineludibile valore dell’umanità.
In un mondo in cui l’umanità sembrava “maltrattata”, Chaplin ci ha ricordato che la forza di opporsi al tiranno risiede in ognuno di noi.
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