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Su Fabbrica della Comunicazione, la rubrica Spazio Economico e Unione Europea è a cura dello scrittore ed esperto di economia Fabio Sarzi Amadè e Beatrice Silenzi, direttore responsabile.

L’UNIONE EUROPEA PERDE LA BUSSOLA TRA FOLLIE VERDI E ARMI

L’Unione Europea, sotto la guida della Commissione presieduta da Ursula von der Leyen, sta attraversando una fase di profonda incertezza, segnata da una serie di battute d’arresto politiche e da contraddizioni sempre più evidenti.
Dall’ambizioso piano di riarmo, ribattezzato con l’eufemismo “preserving peace” (preservare la pace), alle politiche del Green Deal che vacillano, fino a un processo di allargamento guidato più dall’ideologia che dalla pragmatica, emerge il ritratto di un’istituzione in affanno, spesso scollegata dalla realtà economica e sociale dei suoi Stati membri.

Uno dei fronti più caldi riguarda la gestione del conflitto in Ucraina e le sue ripercussioni. La proposta di Ursula von der Leyen di utilizzare gli attivi sovrani russi congelati (circa 220 miliardi di euro, di cui 185 in Belgio presso la società finanziaria Euroclear) come garanzia per un prestito a Kiev è naufragata di fronte alle perplessità del Consiglio Europeo.

Il Primo Ministro belga, Bart De Wever, ha sollevato obiezioni cruciali, evidenziando l’enorme rischio legale di una mossa considerata illegale secondo il diritto internazionale.
De Wever ha avvertito che una tale azione esporrebbe l’UE a “enormi richieste di risarcimento” da parte della Russia, sottolineando che un eventuale arbitrato internazionale avrebbe un esito scontato.

La ritorsione di Mosca, con il sequestro di beni appartenenti ad aziende europee in Russia, è una conseguenza quasi certa.
Di fronte a questi rischi, il Consiglio ha respinto la proposta della Commissione, chiedendo di esplorare altre opzioni e infliggendo un duro colpo politico alla sua Presidente.

Parallelamente, la strategia delle sanzioni contro la Russia mostra segni di stanchezza e assume contorni quasi grotteschi.
Il diciannovesimo pacchetto di sanzioni, infatti, include misure che suscitano perplessità, come il divieto di esportazione verso la Russia di articoli per il bagno, quali water e bidet, ma anche di muschio, licheni, giocattoli per bambini come bambole e puzzle.
Queste restrizioni, apparentemente irrilevanti per un paese dalle risorse naturali sterminate, vengono percepite più come un atto di propaganda che come una misura efficace, alimentando un senso di scollamento tra le decisioni di Bruxelles e la realtà strategica.

Anche il fiore all’occhiello della Commissione von der Leyen, il Green Deal, sta incontrando ostacoli significativi. Il sistema di scambio di quote di emissioni (ETS2), pensato per estendere anche ai trasporti privati e al riscaldamento domestico il principio del “chi inquina paga”, sta subendo ritardi.
Previsto per il 2027, è già slittato al 2028, con ben 19 paesi, Italia inclusa, che chiedono un rinvio al 2030.

La preoccupazione è legata all’impatto devastante sui cittadini, che si vedrebbero addebitare i costi delle quote di CO2 sui carburanti e sulle bollette del riscaldamento.
Il prezzo di una singola quota è passato da 6 euro nel 2017 a picchi di oltre 100 euro nel 2023, contribuendo in modo significativo all’inflazione.

In questo contesto, anche gli obiettivi climatici per il 2040 sono stati rivisti al ribasso: la riduzione del 90% delle emissioni è stata attenuata a un più modesto 80-85%.
La contraddizione più stridente, tuttavia, emerge da un’inchiesta della piattaforma di giornalismo investigativo Follow the Money.

Tra il 2021 e il 2024, mentre l’UE imponeva sacrifici ai cittadini in nome della transizione ecologica, le 65 maggiori banche mondiali hanno investito nei combustibili fossili più del doppio rispetto alle energie rinnovabili.
Una cifra colossale di 1.600 miliardi di dollari che scommette, di fatto, sul fallimento della lotta al cambiamento climatico, scaricandone però il peso e la colpa sulla popolazione.
Infine, il processo di allargamento dell’Unione appare sempre più come uno strumento ideologico.
L’Ucraina, un paese in guerra, con un rapporto deficit/PIL superiore al 19% e gravi problemi di corruzione, viene spinta verso un’adesione rapida.

La Commissione sostiene che Kiev stia facendo “grandi passi avanti”, pronta ad aprire i capitoli negoziali nonostante solo pochi mesi fa gli stessi capitoli fossero definiti “totalmente incompatibili” con le normative UE.
Al contrario, paesi come la Serbia o la Macedonia del Nord vedono il loro percorso bloccato per ragioni squisitamente politiche, legate all’allineamento dei loro governi con Mosca o a posizioni considerate “nazionaliste”.
L’adesione dell’Ucraina comporterebbe conseguenze finanziarie enormi, assorbendo gran parte dei fondi per l’agricoltura e la coesione, oltre a porre un’incognita strategica: se un paese membro è in guerra, i trattati non obbligherebbero gli altri Stati a intervenire formalmente?

L’Unione Europea alla Prova dei Fatti: Tra Contraddizioni, Slogan e una Crescente Disconnessione

Queste dinamiche, dal riarmo alle politiche green, dalle sanzioni all’allargamento, disegnano un quadro di un’Unione Europea in piena crisi di identità e di metodo.
Le decisioni appaiono spesso improvvisate, dettate da slogan e non sostenute da un’analisi realistica dei costi e dei benefici. La reazione più eloquente è forse quella dei cittadini, che manifestano la loro disaffezione disertando le urne.
Con un’astensione che ha superato il 52% in Italia e ha raggiunto picchi del 70% nei Paesi Baltici alle ultime elezioni europee, il divario tra la narrazione trionfalistica di Bruxelles e il sentimento popolare sembra ormai incolmabile.

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