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Su Fabbrica della Comunicazione, la rubrica dedicata all’economia e alle politiche dell’Unione europea, a a cura di Beatrice Silenzi – giornalista e direttore responsabile – con Fabio Sarzi Amadè si chiama Spazio Economico.

Controverso, venerato, discusso.
Pochi personaggi della storia recente italiana ed europea dividono l’opinione pubblica e gli analisti come Mario Draghi.
Per il mainstream mediatico e finanziario, è il salvatore dell’euro, l’uomo della provvidenza chiamato a risolvere le crisi più intricate.
Ma dietro questa narrazione quasi agiografica, si cela una carriera complessa, costellata di scelte cruciali, frequentazioni influenti e decisioni che, secondo una lettura critica come quella offerta dall’esperto di economia Fabio Sarzi Amadè, hanno sistematicamente favorito gli interessi della grande finanza internazionale a discapito della sovranità e dell’economia reale dei singoli Stati, Italia in primis.

L’analisi di Sarzi Amadè non è un semplice esercizio di biografia, ma una vera e propria decostruzione del mito, un invito a rileggere i passaggi chiave della sua ascesa per comprendere la logica che ha guidato le sue azioni, dal Ministero del Tesoro alla Banca Centrale Europea, fino a Palazzo Chigi.

Per capire il Draghi di oggi, è indispensabile partire dalla sua formazione. Nato a Roma in una famiglia già immersa nel mondo bancario (il padre Carlo lavorò in Banca d’Italia e IRI), il giovane Mario riceve un’educazione rigorosa presso l’istituto Massimiliano Massimo, gestito dai Gesuiti.
Non emerge come un fuoriclasse, ma come uno studente diligente e preparato.
La sua carriera accademica prende una piega decisiva all’Università La Sapienza, dove si laurea con una tesi sotto la guida di Federico Caffè, uno dei più grandi economisti keynesiani italiani.
La tesi, significativamente, è una critica al Piano Werner, il primo tentativo di unione monetaria europea, che Draghi bocciava per la mancanza di presupposti economici.

Questo primo imprinting, apparentemente critico verso un’integrazione monetaria forzata, viene però completamente ribaltato durante il suo dottorato al MIT di Boston. Qui, il suo mentore diventa Franco Modigliani, premio Nobel per l’economia e figura di spicco della scuola neoclassica.
È un passaggio fondamentale: dall’influenza di Caffè, sostenitore di un ruolo attivo dello Stato nell’economia, a quella di Modigliani, esponente di un pensiero più orientato al mercato e al liberismo.

Questa transizione ideologica, secondo Sarzi Amadè, è la chiave di volta per interpretare tutte le sue mosse future. Draghi assorbe un paradigma economico che vedrà nelle liberalizzazioni, nelle privatizzazioni e nella stabilità dei mercati finanziari la ricetta per la crescita, un credo che porterà avanti con coerenza per tutta la sua carriera.

1992: Il Britannia e l’Alba delle Privatizzazioni

Il vero punto di svolta, il momento in cui Draghi entra da protagonista nell’arena del potere che conta, è il 1991, quando viene nominato Direttore Generale del Ministero del Tesoro.
È da questa posizione che parteciperà a uno degli eventi più discussi e controversi della storia repubblicana: l’incontro sul panfilo della Regina Elisabetta, il Britannia, il 2 giugno 1992.

Sarzi Amadè sottolinea la natura anomala e inquietante di quell’evento. Su una nave battente bandiera straniera, ancorata al largo di Civitavecchia, si riuniscono i vertici della City di Londra e un nutrito gruppo di manager delle più grandi aziende pubbliche italiane (IRI, ENI, INA).
Mario Draghi è presente, nella sua veste di Direttore del Tesoro, e tiene un discorso sulla necessità di privatizzare il patrimonio pubblico italiano.

L’incontro avviene in un clima di crisi (lira sotto attacco, scandalo Tangentopoli agli inizi) e appare, a posteriori, come la pianificazione strategica di quella che sarà la più grande svendita di asset industriali e finanziari dello Stato.
Per i critici, il Britannia non fu un semplice convegno, ma il luogo dove l’establishment finanziario anglosassone ricevette garanzie sulla dismissione dell’industria italiana, un processo che Draghi avrebbe gestito in prima persona.

L’Affare Antonveneta e le Cene Potenti

Nel 2005, Draghi diventa Governatore della Banca d’Italia, rompendo con la tradizione che vedeva la nomina di un candidato interno.
Il suo mandato è segnato da un episodio che, secondo Sarzi Amadè, meriterebbe ben altra attenzione: l’acquisizione di Banca Antonveneta da parte del Monte dei Paschi di Siena.

Nel 2007, MPS, sotto la guida di Mussari, acquista Antonveneta dalla spagnola Santander per la cifra colossale di 9 miliardi di euro.
Il problema?
Pochi mesi prima, la stessa Santander aveva acquisito la banca per circa 6 miliardi.
L’operazione, che si rivelerà disastrosa per le casse di MPS e richiederà ingenti salvataggi pubblici, riceve il via libera dalla Banca d’Italia guidata da Draghi.
Come è stato possibile autorizzare una simile plusvalenza in così poco tempo, su un’operazione che ha di fatto affossato una delle più antiche banche del mondo?
La domanda, sollevata dalla Corte dei Conti anni dopo in una corposa relazione, rimane senza una risposta esauriente.

A dipingere il quadro delle sue frequentazioni e del suo modo di operare, c’è un’altra istantanea potente: la “cena tra amici” a casa di Bruno Vespa nell’aprile del 2010.
Attorno al tavolo siedono, oltre a Draghi, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, il suo sottosegretario Gianni Letta, il banchiere Cesare Geronzi, il cardinale Tarcisio Bertone (all’epoca a capo dello IOR, la banca vaticana) e Pier Ferdinando Casini.
Un consesso che, secondo Sarzi Amadè, rappresenta una commistione di poteri (politico, finanziario, istituzionale, vaticano) inaccettabile per un Governatore di una Banca Centrale, il cui ruolo dovrebbe essere improntato alla massima terzietà e trasparenza.

La BCE e la Decostruzione del “Whatever It Takes”

Il culmine della sua carriera arriva nel 2011 con la presidenza della Banca Centrale Europea. È qui che nasce il mito di “Super Mario”. Il 26 luglio 2012, a Londra, di fronte a una platea di investitori, pronuncia la frase che passerà alla storia: “Whatever it takes” (“Tutto ciò che è necessario”).
La BCE, promette Draghi, farà di tutto per salvare l’euro. I mercati si calmano, lo spread scende e Draghi viene celebrato come l’uomo che ha fermato la crisi dei debiti sovrani.

Tuttavia, l’analisi di Sarzi Amadè ribalta completamente questa narrazione. Il “Whatever it takes” non sarebbe stato un atto eroico per salvare i cittadini europei, ma una mossa strategica per rassicurare le grandi banche e i fondi d’investimento (molti dei quali presenti a quella conferenza) che detenevano miliardi di “crediti marci” e titoli di Stato dei paesi in difficoltà. La promessa di Draghi era, in sostanza, una garanzia che la BCE avrebbe coperto le loro scommesse rischiose.

Lo strumento principale di questa politica è stato il Quantitative Easing (QE), un’iniezione senza precedenti di liquidità nel sistema.
Draghi ha inondato il mercato con 2.600 miliardi di euro.
L’obiettivo dichiarato era stimolare l’economia reale e far risalire l’inflazione, ma secondo i critici il risultato è stato un altro.
Quella massa di denaro, invece di arrivare alle piccole e medie imprese o alle famiglie, è rimasta intrappolata nel circuito finanziario, gonfiando bolle speculative, alimentando i mercati azionari e arricchendo chi già operava in quel settore.
Le banche, piene di liquidità a tassi zero, hanno preferito investire in speculazioni piuttosto che prestare denaro all’economia reale, che languiva.

Un altro atto cruciale, e politicamente pesantissimo, è la lettera inviata nell’agosto 2011, insieme all’allora presidente uscente Jean-Claude Trichet, al governo italiano guidato da Berlusconi.
Quella lettera non era un consiglio tecnico, ma un vero e proprio ultimatum, un “ricatto” che dettava l’agenda politica dell’Italia per gli anni a venire: riforma delle pensioni, liberalizzazioni, tagli alla spesa pubblica.
Era un’invasione di campo senza precedenti, che di fatto ha commissariato la politica economica italiana e spianato la strada al governo tecnico di Mario Monti, che di quel programma sarà il fedele esecutore.

Infine, le politiche di Draghi alla BCE hanno avuto un chiaro vincitore: la Germania. Mantenendo il cambio dell’euro basso e esercitando pressione per la compressione dei salari nei paesi della periferia (Italia, Spagna, Grecia), si è creato un vantaggio competitivo enorme per l’export tedesco, che ha accumulato surplus commerciali record a discapito dei partner europei.

Premier e l’Illusione del PNRR

Nel 2021, Mario Draghi torna in scena come Presidente del Consiglio italiano, ancora una volta invocato come “salvatore”. Il pretesto è la gestione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), i 191 miliardi di euro del fondo europeo Next Generation EU. Anche qui, la narrazione dominante viene smontata da Sarzi Amadè.

Innanzitutto, la maggior parte di quei fondi (circa due terzi) sono prestiti che l’Italia dovrà restituire con gli interessi.
Il resto, la parte definita “a fondo perduto”, non è un regalo, ma denaro che andrà comunque ripagato attraverso maggiori contribuzioni al bilancio UE o nuove tasse europee.
Inoltre, l’Italia avrebbe potuto raccogliere la stessa cifra, e forse anche di più, emettendo propri titoli di Stato, come dimostrato dalla forte domanda registrata in aste recenti.
Il vero scopo del PNRR, secondo questa lettura, non era tanto fornire fondi, quanto legare le mani alla politica economica nazionale, vincolando l’erogazione delle rate al rispetto di una serie di “riforme” e “condizionalità” decise a Bruxelles, perpetuando di fatto il commissariamento iniziato con la lettera del 2011.

Dalla formazione ideologica al MIT fino al suo ruolo attuale di estensore di rapporti sulla competitività per l’Unione Europea, la carriera di Mario Draghi appare, sotto la lente critica, come un percorso estremamente coerente.
Un percorso che ha visto la progressiva erosione della sovranità economica degli Stati in favore di un’architettura tecnocratica e finanziaria sovranazionale. Le sue azioni, sebbene presentate come soluzioni tecniche e neutrali, hanno avuto profonde e durature conseguenze politiche, creando vincitori e vinti.

La figura di Draghi rimane potente nell’immaginario collettivo, alimentata da un sistema mediatico che raramente mette in discussione i suoi dogmi.
Ma analizzando i fatti – dalle privatizzazioni degli anni ’90 agli scandali bancari, dalla natura del QE alle ingerenze politiche della BCE – emerge un ritratto diverso: quello di un uomo di potere straordinariamente abile, che ha saputo navigare le stanze della finanza globale, servendone gli interessi con una lucidità e una determinazione che hanno ridisegnato il volto dell’Europa, lasciando dietro di sé una scia di domande ancora in attesa di risposta.

1992. MANI PULITE, MAASTRICHT E BRITANNIA

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