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Su Fabbrica della Comunicazione, la rubrica Approfondimento Stoico è a cura dello scrittore ed antifilosofo Michele Putrino e Beatrice Silenzi, direttore responsabile.
In un’epoca caratterizzata dalla proliferazione delle opinioni, dalla polarizzazione del pensiero e dalla radicalizzazione del dibattito pubblico, si fa sempre più urgente un’indagine sulla natura della verità e sul modo in cui essa viene percepita, difesa o imposta.
La “sindrome di Aristotele” è una condizione mentale che induce molte persone a credere di avere sempre ragione, e che affonda le sue radici nel pensiero filosofico occidentale, da Aristotele e Platone fino agli Stoici e al relativismo moderno.
La figura di Aristotele: tra genio e arroganza
Aristotele, una delle menti più influenti della filosofia antica, è stato per secoli considerato “il filosofo” per eccellenza.
Questa definizione non è casuale: nei secoli, la sua figura ha assunto un’aura quasi intoccabile, eretta a simbolo di razionalità e sapere.
Secondo alcune narrazioni antiche, Aristotele non era solo un pensatore acuto ma anche una personalità estremamente sicura di sé, al punto da risultare arrogante. La consapevolezza della propria intelligenza e della portata delle proprie teorie lo avrebbe portato a ostentare la sua superiorità intellettuale in modo spregiudicato.
È da questa dimensione caratteriale che nasce il concetto provocatorio di “sindrome di Aristotele”: l’atteggiamento di chi è convinto di detenere la verità, di chi rifiuta la possibilità dell’errore e, soprattutto, di chi impone il proprio punto di vista come assoluto.
Aristotele e Platone: due visioni della verità a confronto
Non si può parlare di Aristotele senza menzionare Platone, suo maestro e poi avversario teorico. I due filosofi rappresentano visioni del mondo diametralmente opposte.
Platone postulava l’esistenza di un mondo ideale, invisibile e perfetto, al quale il nostro mondo sensibile non è che una copia imperfetta.
La verità, secondo Platone, si trova nel regno delle Idee: un piano trascendente, raggiungibile solo attraverso la contemplazione filosofica e il distacco dalla realtà materiale.
Aristotele, al contrario, rigettava l’idea di un mondo separato e sosteneva che la verità si trovi nel mondo reale, osservabile e concreto.
Secondo lui, per giungere alla verità bisogna seguire la via della “medietà”, concetto centrale della sua etica e del suo pensiero in generale.
La virtù e la verità, per Aristotele, risiedono nel giusto mezzo tra due estremi. La famosa espressione “in medio stat virtus” ben sintetizza questa prospettiva.
La metafora dell’amore platonico
Il concetto platonico dell’amore rappresenta un altro esempio paradigmatico di trascendenza.
L’amore vero, per Platone, non può essere legato alla fisicità o all’emotività del mondo sensibile, ma deve elevarsi verso l’Idea del Bene, verso ciò che è eterno e immutabile.
È da qui che nasce il concetto moderno di “amore platonico”: un sentimento puro, ideale, non contaminato dal desiderio carnale.
Anche qui si osserva un netto contrasto con la visione aristotelica, incentrata sull’osservazione del reale.
Mentre Platone invita al superamento della realtà tangibile, Aristotele richiama alla concretezza e all’analisi empirica.
Archetipi filosofici: la persistenza delle antiche scuole nel pensiero moderno
Nonostante il tempo trascorso, le scuole filosofiche antiche continuano a influenzare profondamente il modo in cui le persone interpretano la realtà.
La maggior parte degli individui, anche inconsapevolmente, si rifà a una visione del mondo che può essere ricondotta a una di queste antiche scuole.
Questo avviene per motivi culturali, educativi, ma anche per attitudini personali.
Chi, ad esempio, tende a cercare un ordine superiore e trascendente nella realtà, è spesso portato verso una visione platonica; chi, invece, predilige l’osservazione concreta dei fatti, si avvicina all’approccio aristotelico.
Altri ancora, influenzati dallo stoicismo, tendono a distaccarsi dalle passioni per cercare una forma di saggezza interiore.
È interessante osservare come queste visioni non siano mere astrazioni, ma strutture cognitive profonde che orientano le scelte, i comportamenti e le interpretazioni quotidiane.
Il ruolo degli Stoici: prospettivismo e relatività della verità
La posizione degli Stoici si colloca in maniera originale all’interno di questo dibattito.
Essi sostenevano che, pur esistendo una verità, l’essere umano non può mai raggiungerla pienamente, proprio perché è intrappolato nella propria limitata prospettiva.
Questo pensiero si avvicina molto a quello che, in epoca moderna, verrà chiamato “prospettivismo”, teorizzato da Nietzsche.
Secondo questa visione, ogni individuo interpreta la realtà da un punto di osservazione unico e irripetibile.
Anche quando due persone osservano lo stesso fenomeno, ne traggono comprensioni diverse, poiché influenzate dalla propria storia, cultura, emozioni e aspettative.
La verità, in questo senso, è inaccessibile nella sua totalità e si frammenta in una molteplicità di punti di vista, che possiamo solo chiamare “opinioni”.
Oggi più che mai, il confine tra opinione e verità è diventato labile. La diffusione dei social network e dei mezzi di comunicazione digitale ha moltiplicato le occasioni per esprimere opinioni, ma ha anche creato l’illusione che ogni opinione possa equivalere a una verità.
Questo fenomeno è strettamente legato alla sindrome di Aristotele: la convinzione, spesso infondata, di avere sempre ragione.
Molte persone, una volta convinte di un’idea, vi si aggrappano con tenacia, confondendo la loro percezione con la realtà oggettiva.
Questo atteggiamento produce una chiusura mentale che impedisce il dialogo, alimenta conflitti e favorisce la radicalizzazione del pensiero. In un certo senso, è una forma moderna di dogmatismo, alimentata però dalla fragilità e dall’insicurezza: la certezza assoluta fornisce un senso di stabilità in un mondo percepito come incerto e caotico.
L’ipse dixit e la delega dell’intelletto
Un altro aspetto cruciale di questo fenomeno è la tendenza ad affidarsi a verità preconfezionate, spesso in nome dell’autorità: il cosiddetto “ipse dixit” (lo ha detto lui).
Le persone tendono ad assumere come vere le affermazioni di individui considerati autorevoli, senza passare attraverso un reale processo di analisi o di riflessione critica.
Questo accade spesso anche nel mondo scientifico, religioso e politico, dove figure carismatiche assumono il ruolo di garanti della verità.
Ma ciò che viene accettato come vero non sempre lo è; spesso si tratta di interpretazioni, opinioni o persino manipolazioni.
La verità come sicurezza: un bisogno psicologico
Dietro la ricerca ossessiva della verità, spesso si nasconde un bisogno umano fondamentale: la sicurezza.
Trovare una verità rassicurante, anche se parziale o illusoria, permette all’individuo di dare un senso al mondo, di orientarsi nelle scelte e di costruire un’identità.
Questa dinamica psicologica rende difficile l’abbandono delle proprie convinzioni, anche di fronte a prove contrarie.
Quando una convinzione viene messa in discussione, l’individuo si sente minacciato non solo nella sua intelligenza, ma nella sua stabilità emotiva.
Da qui nasce la resistenza al confronto, il rifiuto del dubbio, l’aggressività verso chi propone visioni differenti.
L’unico modo per sfuggire alla sindrome di Aristotele è la consapevolezza. Riconoscere che la propria opinione non è la verità assoluta ma solo una delle tante possibili prospettive è il primo passo verso una maturità filosofica e personale.
Questa consapevolezza non implica il relativismo assoluto, secondo cui tutto è ugualmente vero e nulla ha valore, ma il riconoscimento dei limiti della propria visione.
Una persona consapevole sa difendere le proprie idee con forza, ma anche metterle in discussione. Sa ascoltare, comprendere, accettare la complessità.
Sa che ogni punto di vista è parziale e che la verità, se esiste, è più grande di quanto un singolo individuo possa cogliere.
Il coraggio del dubbio
In un mondo che premia la sicurezza e punisce l’incertezza, ci vuole coraggio per ammettere di non sapere, per dubitare, per rimanere aperti.
Socrate lo aveva compreso già millenni fa, quando affermava: “So di non sapere”. Questa consapevolezza, lungi dall’essere una debolezza, rappresenta la vera forza del pensiero critico.
Svincolarsi dalla sindrome di Aristotele significa imparare a convivere con il dubbio, accettare la pluralità delle opinioni e comprendere che, in definitiva, la verità non si possiede: si cerca.
E nel cercarla, è forse più importante ciò che si diventa piuttosto che ciò che si scopre.
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