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Su Fabbrica della Comunicazione la rubrica Libero Pensiero è cura di Beatrice Silenzi – giornalista e direttore responsabile, qui con Enzo Pennetta.
Il referendum, in teoria uno degli strumenti più puri della democrazia diretta, si sta trasformando sempre più spesso in una scena secondaria della politica italiana, una sorta di palcoscenico residuale dove si consumano tensioni tra forze in campo e dove la volontà popolare rischia di rimanere inascoltata.
Quanto sta accadendo negli ultimi anni, compreso l’esito negativo del referendum contro l’invio di armi in Ucraina promosso nel 2023, offre lo spunto per riflettere sul senso e sull’efficacia di questo strumento, nonché sullo stato generale del rapporto tra cittadini, istituzioni e politica.
Nel 2023 Enzo Pennetta, attivista e promotore politico, ha sostenuto un referendum per interrompere l’invio di armi all’Ucraina da parte dell’Italia.
Il tentativo si è arenato al numero delle firme: circa 370.000 raccolte, ben lontane dalle 500.000 necessarie per indire la consultazione.
La ragione principale del fallimento non risiedeva tanto nell’indifferenza popolare, quanto nell’assenza di supporto da parte dei partiti e nell’oscuramento mediatico.
Nessuna forza politica presente in Parlamento appoggiava la proposta, e ciò ha comportato un silenziamento quasi totale della campagna sui grandi media, rendendo il referendum praticamente invisibile all’opinione pubblica.
Il tempo ha dato un certo riscontro alle posizioni dei promotori: oggi, a distanza di due anni, si parla apertamente della necessità di trattative di pace, dopo che l’Ucraina ha registrato perdite ingenti senza ottenere i risultati sperati sul campo.
Un cambio di direzione che conferma la fondatezza dell’idea iniziale, ma che è arrivato troppo tardi, dopo decine di migliaia di vittime.
Un ritardo che lascia un senso di amara frustrazione nei confronti delle scelte politiche fatte, e che pone l’interrogativo su quanto davvero la volontà popolare riesca ad incidere.
Il nuovo referendum e il silenzio sul contenuto
Un nuovo pacchetto referendario si affaccia ora all’orizzonte, con tematiche che spaziano dal lavoro alla cittadinanza, e il rischio è che si ripeta lo stesso schema: disinteresse mediatico, partecipazione popolare marginale, manipolazione politica.
Il dibattito pubblico appare concentrato esclusivamente sulla questione della partecipazione o dell’astensione, tralasciando quasi completamente i contenuti specifici dei quesiti.
Tra i temi centrali si trovano:
Il Jobs Act: oggetto di uno dei referendum, mira a rivedere le norme sui licenziamenti, estendendo le tutele anche ai lavoratori delle piccole imprese e introducendo responsabilità più ampie per le aziende appaltatrici e subappaltatrici in tema di sicurezza.
Fa riflettere il fatto che coloro che oggi ne chiedono l’abrogazione – in particolare esponenti dell’attuale centrosinistra – sono gli stessi che approvarono la riforma quando erano al governo. Una contraddizione che mina la credibilità della proposta.
La cittadinanza agli immigrati: altro quesito controverso, accusato di voler forzare il consenso popolare inserendo nel pacchetto una questione non condivisa con la stessa ampiezza delle altre.
L’ipotesi è che si cerchi un ritorno politico attraverso il potenziale futuro voto degli immigrati naturalizzati, favorendo uno specifico schieramento.
Entrambe le proposte riflettono l’uso strumentale del referendum, impiegato non come veicolo autentico della volontà popolare, ma come strumento di posizionamento politico.
Un comportamento che rischia di delegittimare lo strumento stesso, rendendolo sempre meno efficace e sempre più marginale.
La parabola del referendum in Italia: tra illusione democratica e realtà politica
Nel corso degli ultimi decenni, numerosi referendum hanno mostrato come la volontà espressa dai cittadini possa essere ignorata o rapidamente superata da scelte politiche successive.
È il caso emblematico del referendum sul nucleare: in due occasioni gli italiani hanno respinto questa fonte energetica, ma oggi il tema è tornato al centro del dibattito politico, in nome dell’indipendenza energetica e del contenimento delle bollette.
La verità è che il referendum, pur essendo uno strumento legittimo e prezioso, ha un’efficacia limitata nel tempo.
Non solo può essere superato da modifiche legislative, ma spesso viene ignorato in nome di ragionamenti “superiori”, come l’evoluzione tecnologica o la pressione dei mercati internazionali.
Il caso dell’acqua pubblica, su cui il popolo italiano si era espresso chiaramente contro la privatizzazione, rappresenta un altro esempio di decisioni politiche che tornano ciclicamente a contraddire la volontà popolare.
Il referendum, quindi, ha senso se inserito in una dinamica democratica che ne rispetti il significato originario: un modo per correggere il distacco tra cittadini e rappresentanti, e non uno strumento manipolabile a seconda delle convenienze del momento.
Neoliberismo, fine della politica e teatrini parlamentari
Il panorama politico italiano, e più in generale occidentale, sembra oggi dominato da un’unica ideologia di fondo: il neoliberismo.
Una teoria che ha assorbito sia la destra che la sinistra, rendendo indistinguibili le politiche economiche dei diversi schieramenti.
Quando tutto lo spettro politico accetta le stesse regole del gioco, scompare il confronto vero, ideologico, sulla visione di società.
In questo contesto, la politica si trasforma in una guerra tra figure, in uno scontro personalistico e opportunistico.
Le scelte legislative seguono logiche di calcolo, i programmi vengono disattesi e il dibattito pubblico si riduce a slogan e provocazioni.
Le differenze reali si limitano a questioni identitarie o simboliche, lasciando inalterata la struttura di fondo delle politiche economiche e sociali.
Il governo Draghi ha rappresentato un esempio paradigmatico di questo processo: forze teoricamente contrapposte hanno sostenuto le stesse decisioni, dimostrando quanto siano diventate fluide e intercambiabili le posizioni dei partiti.
Di fronte a questa situazione, la politica perde credibilità e la partecipazione popolare si riduce, alimentando il sentimento che “tanto non cambia nulla”.
L’astensionismo come malattia della democrazia
L’allontanamento dei cittadini dalla politica si concretizza nella crescente astensione, soprattutto nei referendum, dove vige l’obbligo del quorum.
Se alle elezioni politiche il non voto amplifica il peso di chi partecipa (un partito può ottenere la maggioranza anche con il 10% degli aventi diritto, se solo quel 10% va a votare), nel referendum l’astensione ha un valore differente: può annullare l’efficacia stessa della consultazione.
Questo meccanismo viene spesso strumentalizzato: oggi alcuni organi di stampa e partiti invitano a non votare, proprio per evitare il raggiungimento del quorum, svuotando così il referendum di ogni potenziale impatto.
Un comportamento che stride con le stesse posizioni assunte da quegli attori in passate occasioni, dimostrando ancora una volta quanto il principio venga subordinato all’interesse politico del momento.
Il ricatto della politica: tra pressioni internazionali e cooptazione del dissenso
Una delle accuse più gravi mosse al sistema politico attuale è la sua vulnerabilità a pressioni esterne e interne che ne compromettono l’autonomia.
Esperienze come quella di Yanis Varoufakis in Grecia, con le minacce personali ricevute dopo il referendum contro le politiche della troika, raccontano una realtà spesso taciuta: chi si oppone realmente al sistema dominante rischia non solo l’isolamento politico, ma anche intimidazioni concrete.
In Italia, la storia è segnata da episodi drammatici come quelli di Enrico Mattei e Aldo Moro, che mostrano quanto sia difficile – se non impossibile – scardinare interessi radicati e strutture di potere sovranazionali.
L’illusione che basti entrare in Parlamento per cambiare le cose è ingenua: chi si propone come alternativa dovrebbe dichiarare apertamente che il percorso sarà pieno di ostacoli, anche duri e scorretti.
Chi non fa questa premessa rischia di deludere e tradire le aspettative, alimentando la disillusione.
È questo il punto: la politica vera richiede consapevolezza, preparazione e coraggio. Non basta cavalcare le emozioni o presentare slogan accattivanti.
Servono visioni strutturate, strategie di lungo termine e soprattutto la volontà di resistere a pressioni che possono essere devastanti.
La spettacolarizzazione della politica e la crisi della competenza
Un’altra deriva pericolosa della politica contemporanea è la spettacolarizzazione del dibattito. Talk show televisivi e social network hanno trasformato la discussione pubblica in un’arena di zuffe verbali, dove prevalgono emozioni e personalismi.
Le figure politiche vengono costruite più in base alla loro presenza mediatica che alla loro preparazione o competenza.
L’autorevolezza non è più frutto di studio o esperienza, ma del numero di apparizioni televisive.
Personaggi improbabili, senza contenuti o idee solide, diventano opinion leader semplicemente perché “sono lì”, perché fanno audience. E questo meccanismo avvelena ulteriormente il dibattito pubblico, rendendo impossibile ogni confronto serio.
Non si sente più nessuno discutere con profondità, esporre programmi articolati, proporre soluzioni realistiche.
Tutto si riduce a slogan, battute, attacchi personali.
Il risultato è che la cittadinanza si disaffeziona, si rifugia nel disinteresse e nel cinismo, mentre il potere reale – quello economico e sovranazionale – agisce indisturbato, senza opposizione.
La sfida più grande per chi ancora crede nella democrazia è quella di riconquistare la politica.
Farlo significa riprendere in mano strumenti come il referendum, ma anche restituire dignità al confronto pubblico, alla costruzione di visioni alternative, alla formazione di una classe dirigente realmente competente e indipendente.
Non basta più denunciare il sistema: occorre proporre, con coraggio e rigore, un altro modo di intendere la politica.
Un modo che parta dalla verità, che sappia riconoscere le difficoltà e i rischi, ma che non rinunci a lottare.
Solo così si potrà riavvicinare la cittadinanza alla politica e restituire senso alle parole partecipazione, democrazia, cambiamento.
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