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Su Fabbrica della Comunicazione la rubrica Libero Pensiero è cura di Beatrice Silenzi – giornalista e direttore responsabile, qui con Valentina Ferranti.
Un’analisi lucida, a tratti spietata, quella emersa dall’intervento con l’antropologa e scrittrice Valentina Ferranti.
Non si tratta di un semplice lamento sul tempo che passa, ma di una diagnosi precisa di una civiltà, quella occidentale, affetta da un profondo malessere: un delirio di onnipotenza.
È questa la chiave di lettura che Ferranti offre per decifrare la nostra epoca, una fase storica in cui, paradossalmente, l’apice tecnologico e la capacità produttiva coincidono con un inesorabile declino umano e culturale.
Il punto di partenza è una constatazione: abbiamo perso le nostre radici. Il folklore, le tradizioni, quel “saper fare” artigianale che definiva le nostre comunità sono stati erosi e sostituiti da un modello che l’antropologa definisce “neo-fordismo”.
Una cultura della produzione in serie che non si applica più solo agli oggetti, ma all’esistenza stessa.
Il risultato è una società dell’usa e getta, dove un abito da quattro euro viene indossato una volta e poi scartato, simbolo di una mentalità che non ripara, non conserva, non attribuisce valore duraturo. Un principio che, per estensione, applichiamo anche alle nostre vite.
Questo delirio si manifesta su più livelli.
A livello politico, si traduce nel tentativo di “esportare la democrazia” come modello universale, ignorando le specificità culturali.
A livello economico, si incarna nel neoliberismo sfrenato, in un mercato globale che appiattisce le differenze in nome di uno standard unico.
Ma è a livello sociale e individuale che le conseguenze sono più devastanti.
L’antropologa cita Bauman e il suo concetto di “padri evaporati” per descrivere la disgregazione del nucleo familiare, un tempo baluardo protettivo e principale veicolo di trasmissione di valori.
Senza più una solida base, le nuove generazioni si trovano smarrite, prive di coordinate e di una speranza concreta nel futuro.
La corsa non è più verso la realizzazione di un sogno, ma verso la mera sopravvivenza in un presente totalizzante, un “mordi e fuggi” esistenziale che chiude ogni porta alla trascendenza.
Il corpo stesso è diventato l’ultima frontiera di questa mania di controllo.
La globalizzazione degli standard di bellezza, alimentata dalla chirurgia plastica, non mira più a correggere un difetto, ma a conformarsi a un modello unico, plastificato e innaturale.
Essere “smart”, performanti, eternamente giovani è diventato un imperativo sociale e lavorativo.
La vecchiaia, con le sue rughe e le sue imperfezioni, è vista non come una fase naturale della vita, ma come un peccato da cancellare, una colpa da espiare.
È il transumanesimo che si fa strada, un corpo a pezzi, scomponibile e interscambiabile, esattamente come un prodotto di consumo.
L’intelligenza artificiale, sottolinea Ferranti, sta svuotando di significato intere professioni, perché deleghiamo a essa non solo i compiti, ma il pensiero stesso.
I giovani, iper-preparati tecnologicamente, sono i più esposti a questa “fregatura”, cedendo il proprio ingegno in cambio di una soluzione facile e immediata.
La linea retta su cui corriamo, avverte l’antropologa, conduce a un burrone.
La soluzione non è un utopistico ritorno al passato, ma un necessario passo indietro per riflettere.
Ritrovare il senso del “saper fare” per riscoprire il “saper vivere”. Domandarsi se abbiamo davvero bisogno di tutto ciò che il progresso ci impone.
Solo fermando questa corsa folle e recuperando una dimensione più profonda e spirituale, l’Occidente potrà forse evitare di dissolversi nel vuoto che lui stesso ha creato.
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