;

Clicca per guardare il video

La rubrica Focus Radio è a cura della giornalista Beatrice Silenzi – direttore responsabile di Fabbrica della Comunicazione.

Segui tutti gli appuntamenti di Focus Radio in questo sito

SNARK IL VANDALISMO DELLA PAROLA

Commenti intrisi di sarcasmo e cinismo: tale registro comunicativo, caratterizzato da commenti pungenti e sprezzanti, ha preso piede ovunque e anche i giornalisti non ne sono esenti: dagli articoli di giornale ai tweet, fino a servizi televisivi, il compito è quello di delegittimare, ridicolizzare o marginalizzare chiunque.
Tale pratica solleva quesiti etici e preoccupazioni sul degrado del discorso pubblico.
Il termine snark nasce in ambito anglosassone come fusione di snide remark (battuta perfida), indica un commento sarcastico e ostile, una forma di ironia acida rivolta a sminuire qualcuno, una sorta di “vandalismo culturale”.

Fare snark significa “mettere qualcuno alla berlina non tanto per ciò che ha fatto, ma per la presunzione di essere ciò che è”.
In altre parole, l’obiettivo non è una critica costruttiva o satirica al potere, ma un attacco gratuito all’identità o ai punti deboli di una persona.
Già alla fine degli anni 2000 il problema era discusso a livello internazionale. Nel 2009 il critico americano David Denby pubblicò un saggio intitolato “Snark”, denunciando l’eccesso di sarcasmo, cattiveria e polemica gratuita che sta schiacciando ogni altra forma espressiva in rete (e fuori).

Con l’espansione dei blog, dei social media e di una certa “cultura del cinismo” nel giornalismo digitale, lo snark si è progressivamente normalizzato. Uno studio del 2014 descriveva la cultura del web come dominata da due atteggiamenti: da un lato una falsa deferenza untuosa e dall’altro il sarcasmo, il commento ostile.
La tendenza a privilegiare un tono canzonatorio e una certa aggressività verbale è divenuta per molti versi parte integrante del linguaggio mediatico odierno, in Italia come altrove.

Ma quali effetti produce e come si manifesta concretamente nello scenario italiano recente?
Negli ultimi anni, la stampa e i media italiani hanno offerto numerosi casi di snark. Un caso eclatante è capitato quando nel 2017 sulle pagine di Libero, diretto da Vittorio Feltri, campeggiava il titolo “La patata bollente” riferito a Virginia Raggi, sindaco di Roma.
Lei querelò il giornale, sottolineando come “quel vergognoso titolo non avesse offeso solo lei ma tutte le donne” e nel 2021 il tribunale ha condannato Feltri e il direttore responsabile Pietro Senaldi per diffamazione, con multa e risarcimento danni.

Negli anni ancora precedenti certi oppositori di Berlusconi lo descrivevano come “psiconano” per delegittimarlo, e lui, a sua volta rispondeva con “utile idiota” rivolto a Romano Prodi o “Lei è più bella che intelligente” verso Rosy Bindi. Situazioni come queste testimoniano attacchi ad personam mascherati da ironia. Ma lo snark non è appannaggio solo della politica.
L’uso di soprannomi offensivi o allusioni derisorie ha attraversato la comunicazione.

Su X giornalisti e commentatori partecipano al dibattito pubblico con toni spigliati: la ricerca del sarcasmo in 280 caratteri può però condurre a scivoloni clamorosi.
Va detto che i social amplificano la portata di queste uscite e spesso manca un filtro, poiché, spesso, nella scrittura, la tentazione del motto di spirito crudele è forte, ma come vedremo in seguito, sta crescendo la consapevolezza che questo stile “brillante” può avere effetti devastanti sulla percezione dell’informazione e della comunicazione in generale.

Lo snark permea certi programmi televisivi anche quelli di intrattenimento. Un esempio storico è Striscia la Notizia, definito un “tg satirico” che dagli anni ‘90 ad oggi ha spesso usato toni canzonatori verso politici, VIP o persone comuni colte in situazioni ridicole. Sketch come la consegna del Tapiro d’oro (il trofeo dato a chi ha fatto una figuraccia) hanno un intento umoristico, ma talora sconfinano nell’umiliazione pubblica.
Ciò nonostante, il programma rivendica termini come “inchiesta” e “reportage” per i propri servizi, pur indulgendo in imboscate con telecamere nascoste, linguaggio dissacrante, caricature.

Questa formula ha riscritto parte delle regole della tv italiana, ottenendo share elevati ma attirando anche aspre critiche: lo stesso Ordine dei Giornalisti fatica a intervenire, e di fatto il programma opera in una zona franca dove le regole deontologiche tradizionali, come la pubblicità occulta o mantenere un tono decoroso, sono bypassate.
“La satira è sacrosanta e nasce per ridicolizzare il potere; se invece ride degli oppressi non la si può chiamare satira, ma bullismo”: eccolo il principio chiave: la satira “punta verso l’alto”, il bullismo verso il basso.

Ridicolizzare chi sta in posizione di debolezza o è vittima non è satira bensì aggressione gratuita ed in Italia spesso si è persa questa distinzione, permettendo ai personaggi pubblici di normalizzare il dileggio su bersagli facili con la scusa della risata.
Dai commentatori del mainstream, poi, il discorso si è spostato su una platea sempre più ampia dei numerosi fruitori ed il risultato attuale è l’imbarbarimento generalizzato di qualsiasi discorso.
Ma la satira autentica ha storicamente avuto come bersaglio i vizi dei potenti e le ipocrisie del sistema, non le caratteristiche personali incolpevoli di individui comuni.

Dunque quando il confronto si riduce a scambi di insulti spiritosi o derisioni, si verifica una dinamica da “tifo da stadio” in cui ci si schiera in fazioni che si scagliano slogan e offese, perdendo qualsiasi spazio di dialogo reale.
Gli argomenti nel merito passano in secondo piano e vengono sostituiti da attacchi al mittente anziché al messaggio. In questo circolo vizioso: più cresce la cattiveria verbale, più si sdogana un comportamento non consono.

Il risultato finale è un coacervo sterile e rissoso, dove prevalgono le battute ma si fatica a individuare soluzioni concrete ai problemi ed in cui la “divaricazione tra posizioni” diventa talmente ampia che si perde il terreno comune necessario per un confronto civile.
Alla lunga, questo clima velenoso alimenta la diffidenza verso qualsiasi forma di comunicazione: dall’informazione, che diventa cloaca di insulti e prese in giro, alla vita sui social, che appaiono i posti ideali per poter sfogare le proprie frustrazioni più profonde.

Gli stessi professionisti dell’informazione che indulgono nello sberleffo e nell’invettiva personale, scendono dal piedistallo dell’autorevolezza per entrare nella mischia, trasformandosi in pitbull scatenati, o in troll al pari del peggior utente social.
Si crea quella che è stata definita la “cultura della lettura dell’odio” in cui pubblico e autori si abituano a fruire di contenuti principalmente per indignarsi o disprezzare qualcuno, vivendo di clickbait sarcastici e demolizioni che innescano catene di commenti sempre più violenti.

Un’ultima analisi sul fenomeno va poi fatta tenendo conto che questo clima può anche avere ricadute nel mondo reale, contribuendo a una maggiore aggressività nei confronti di categorie specifiche.
Come sottolineano le Forze dell’ordine preposte al controllo sul web, certe parole “esulano dal parere personale per diventare espressioni di odio ingiustificabili”, tanto più gravi se pronunciate da figure pubbliche, perché possono incoraggiare comportamenti pericolosi nella massa.
Ci vuole insomma equilibrio e buon senso: sapere quando essere ironici e quando seri per contrastare la deriva del cinismo.

 

Focus Radio. L’essenziale, in profondità.

Articolo precedente:

https://www.fcom.it/truffe-telefoniche-e-digitali-come-difendersi

Il video pubblicato è di proprietà di (o concesso da terzi in uso a) FABBRICA DELLA COMUNICAZIONE.
E’ vietato scaricare, modificare e ridistribuire il video se non PREVIA autorizzazione scritta e richiesta a info@fcom.it.