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Su Fabbrica della Comunicazione, la rubrica Politicamente è a cura dello scrittore e storico Paolo Borgognone che commenta con Beatrice Silenzi fatti di attualità, politica e geopolitica.

In un panorama mediatico globale sempre più frammentato e saturo di narrazioni contrapposte, comprendere le reali dinamiche di un conflitto internazionale è diventata un’impresa titanica.
La recente escalation di tensioni tra Israele e Iran, con il coinvolgimento strategico degli Stati Uniti, non fa eccezione. Anzi, rappresenta un caso di studio emblematico di come la guerra non si combatta solo con missili e droni, ma anche e soprattutto con la propaganda, la disinformazione e la manipolazione dell’opinione pubblica.

Paolo Borgognone decodifica gli eventi che stanno scuotendo il Medio Oriente. L’analisi che ne è emersa va ben oltre la cronaca superficiale, svelando un complesso gioco di strategie, inganni e obiettivi a lungo termine che il mainstream mediatico spesso ignora o, peggio, occulta deliberatamente.

La Trappola della Polarizzazione: L’Obbligo di Scegliere da che Parte Stare

Uno dei primi e più potenti meccanismi che entrano in gioco durante una crisi internazionale è la polarizzazione. L’opinione pubblica viene spinta con forza a schierarsi: o con Israele o con l’Iran, o con Trump o contro di lui. Questo meccanismo, apparentemente democratico, è in realtà una trappola intellettuale.
Costringe a semplificare una realtà multidimensionale, riducendola a uno scontro manicheo tra “buoni” e “cattivi”.

Borgognone evidenzia come questa dinamica sia estremamente perniciosa. “Bisogna stare per forza da una parte,” osserva, “non si può stare a guardare quello che succede, perché altrimenti è come fare scontento qualcuno, come fare torto a qualcun altro.”
Questa pressione sociale e mediatica inibisce l’analisi critica e favorisce la creazione di tifoserie.

Il dibattito pubblico si trasforma in una “continua lotta tra chi ha ragione e chi ha torto”, un campo di battaglia dove la complessità viene sacrificata sull’altare dell’appartenenza.
Il ruolo dei media diventa centrale.
Da un lato, il mainstream propone una narrazione largamente unificata, che spesso ricalca le posizioni dei governi occidentali. Dall’altro, i canali alternativi e il web offrono contro-narrazioni che, pur fornendo punti di vista diversi, rischiano a loro volta di cadere in logiche di parte.

Il risultato è un’opinione pubblica divisa in bolle informative incomunicabili, dove ciascuno trova conferma delle proprie convinzioni senza mai metterle veramente in discussione.
La verità non emerge dal confronto, ma viene soffocata dal rumore di fondo della propaganda incrociata.

La Strategia Nascosta di Israele: Non la Pace, ma la Frammentazione dell’Iran

Il cuore dell’analisi si concentra sull’obiettivo strategico reale di Israele, che, a suo avviso, non è semplicemente un cessate il fuoco o la neutralizzazione di una minaccia nucleare, ma qualcosa di molto più ambizioso e destabilizzante: la frammentazione dello stato iraniano.
Secondo l’esperto, l’obiettivo ultimo è quello di innescare una guerra civile in Iran.
Questo non avverrebbe attraverso un’invasione diretta, che sarebbe insostenibile per Israele sia militarmente che economicamente (“un Vietnam moltiplicato per mille volte”), ma attraverso una strategia più subdola: la creazione e il finanziamento di “eserciti per procura”.

Borgognone traccia un parallelo storico preciso con le “proxy wars” del passato, come quella dei Contras in Nicaragua, sostenuti dagli USA contro il governo sandinista, o le operazioni in Libia e Siria.
Il piano, secondo questa lettura, consisterebbe nell’introdurre armi leggere e milizie all’interno del territorio iraniano, sfruttando le tensioni etniche e politiche esistenti per scatenare un conflitto interno. L’analista menziona specificamente i recenti e documentati passaggi di armi dall’Azerbaijan verso l’Iran come un possibile indicatore di questa strategia in atto. L’intento sarebbe quello di creare un caos controllato che indebolisca il regime dall’interno, portando alla sua disgregazione.

In questo scenario, la minaccia della “bomba atomica iraniana” funge da pretesto perfetto, un casus belli nobile da presentare all’opinione pubblica internazionale per giustificare azioni altrimenti ingiustificabili.
Borgognone smonta questa narrazione con due argomenti chiave:

1. La Fatwa di Khomeini:
Esiste una fatwa (un editto religioso) emessa dall’Ayatollah Khomeini nel 1988, e tuttora vincolante, che dichiara la costruzione e l’uso di armi nucleari come “contrari all’Islam”.
Sebbene le fatwa possano essere interpretate, questa rappresenta un ostacolo teologico e politico significativo per il regime.

2. La Posizione Strategica dell’Iran:
L’Iran ha arricchito l’uranio a un livello che, teoricamente, gli permetterebbe un giorno di costruire un’arma, ma non l’ha fatto.
Questa mossa è una forma di deterrenza intelligente: l’Iran si pone nella condizione di poter reagire se messo con le spalle al muro, ma senza attraversare la linea rossa che scatenerebbe un attacco preventivo.
La vera posta in gioco, quindi, non sarebbe impedire la bomba, ma usare lo spettro della bomba per legittimare un’operazione di smembramento geopolitico.

Decodificare la Propaganda: La Morte di Khamenei e il Ritorno dello Scià

Per sostenere questa tesi, Borgognone analizza la narrazione veicolata dai media occidentali, definendola un “prodotto taroccato” venduto a un pubblico spesso inconsapevole. Un esempio lampante è la ricorrente notizia della presunta morte o malattia terminale del leader supremo iraniano, l’Ayatollah Ali Khamenei.
“Ci hanno detto che era morto, che era in un bunker, che stava per scappare,” ricorda Borgognone.

Questa tattica non è nuova: è la stessa utilizzata ripetutamente contro Vladimir Putin, presentandolo come malato, isolato e sul punto di essere rovesciato.
L’obiettivo è creare la percezione di un regime fragile e sull’orlo del collasso, rendendo più appetibile e meno rischiosa l’idea di un intervento esterno.

Un altro tassello di questa architettura propagandistica è la figura di Ciro Reza Pahlavi, il figlio dell’ultimo Scià, presentato da alcuni media come il potenziale futuro leader di un Iran “liberato”. Borgognone liquida questa ipotesi come grottesca. Pahlavi, spiega, è un personaggio largamente sconosciuto o irrilevante per la popolazione iraniana, che vive all’estero da decenni e il cui programma politico, fortemente filo-occidentale e filo-israeliano, non raccoglierebbe alcun consenso interno.

“È più conosciuto dal pubblico italiano che da quello iraniano,” ironizza l’analista. La sua promozione mediatica sarebbe un’operazione puramente fittizia, volta a dare un volto presentabile e rassicurante a un’operazione di regime change.
Il mainstream, secondo Borgognone, agisce con un misto di cinismo e consapevolezza, “ridendo sotto i baffi” mentre costruisce narrazioni che sa essere false, ma che sono funzionali a preparare il terreno psicologico per determinate azioni politiche e militari.

Il Fattore Trump: Un Burattino o un Abile Giocatore?

Nessuna analisi del contesto mediorientale può prescindere dalla figura di Donald Trump. La sua presidenza e le sue azioni hanno profondamente influenzato le dinamiche tra Israele e Iran. La percezione quasi “messianica” che una parte dell’opinione pubblica alternativa ha di Trump, visto come l’unico leader in grado di opporsi al “deep state” e alle logiche belliciste.
Borgognone offre una lettura più sfumata e complessa. Pur riconoscendo le possibili “problematiche psicologiche” e i tratti narcisistici del personaggio, lo descrive come un attore politico che deve bilanciare forze potenti e contrapposte all’interno dell’establishment americano.

In particolare, la sua politica estera sarebbe il risultato di un compromesso tra due correnti:
1. I Jacksoniani:
Una fazione tendenzialmente isolazionista, che vorrebbe un disimpegno degli USA dagli affari del mondo.
2. I Neocons:
La corrente interventista e aggressiva, strettamente legata agli interessi di Israele e dell’industria bellica.
Trump avrebbe avvertito l’Iran dell’imminente attacco, permettendo loro di spostare personale e materiali sensibili.
Trump, quindi, non sarebbe né il salvatore messianico né un semplice burattino, ma un politico che naviga a vista in un mare di interessi contrastanti, cercando di mantenere un equilibrio precario per non scontentare del tutto nessuna delle potenti lobby che influenzano la politica americana.

Il Velo come Schermo di Fumo: L’Uso Strumentale dei Diritti Umani

Uno dei punti più potenti e controversi dell’analisi di Borgognone riguarda l’uso strumentale della questione dei diritti umani, e in particolare del velo islamico, da parte dell’Occidente.
Secondo l’esperto, il focus mediatico ossessivo sul velo in Iran è una deliberata operazione di distrazione di massa. “Vogliono che noi distogliamo gli occhi e l’attenzione da quello che Israele sta facendo a Gaza, un genocidio, per focalizzarci sul distrattore,” afferma.

Il paradosso, sottolinea, è evidente. L’Occidente si erge a paladino della libertà delle donne iraniane, ma è lo stesso Occidente che ha condotto guerre in paesi come la Siria e la Libia, dove esistevano regimi laici (pur con tutti i loro difetti) che garantivano alle donne un’ampia emancipazione.
Il risultato di quegli interventi è stato il rovesciamento di tali regimi e l’insediamento di governi islamisti o del caos jihadista, con un conseguente e drastico arretramento dei diritti femminili.

La questione del velo, pur essendo un tema reale e complesso all’interno della società iraniana, viene decontestualizzata e trasformata in un’arma di propaganda per demonizzare il nemico di turno e giustificare l’aggressione.
La provocazione di Borgognone è tagliente e spinge a una riflessione morale profonda: “Preferisco vedere una donna iraniana col velo che un bambino palestinese morto.” Questa frase non minimizza l’importanza della libertà individuale, ma stabilisce una gerarchia di urgenze, denunciando come la presunta preoccupazione per un codice di abbigliamento venga usata per coprire un massacro.

La Crisi del Diritto Internazionale e l’Era dell’Ideocrazia

L’intera vicenda mette a nudo la crisi profonda del diritto internazionale. Le stesse azioni vengono giudicate in modo diametralmente opposto a seconda di chi le compie.
Se la Russia invade l’Ucraina, viene giustamente condannata per aggressione e violazione del diritto internazionale.
Se Israele bombarda un paese sovrano sulla base di un pretesto non provato, la reazione della comunità internazionale è blanda, se non di tacito assenso.

Per spiegare questa disparità, Borgognone introduce il concetto di “ideocrazia”, prendendo spunto dallo storico tedesco Ernst Nolte.
Un’ideocrazia non è semplicemente una forma di governo, ma un sistema in cui una specifica ideologia (sia essa il nazismo, il comunismo o, in questo caso, il liberalismo occidentale) diventa il metro di giudizio assoluto per la moralità delle nazioni.
In quest’ottica, Israele, in quanto “società liberale e occidentale”, viene considerato intrinsecamente “buono” e quindi autorizzato a compiere azioni che sarebbero considerate criminali se fatte da un paese “cattivo” come l’Iran.

“Lo si fa sulla base di una preferenza politica,” afferma Borgognone. “Chi è considerato buono a livello internazionale può avere dei privilegi rispetto a chi è considerato cattivo.”
Questo trasforma il diritto in uno strumento flessibile al servizio del potere, minando alla base il principio di uguaglianza tra le nazioni.
Si crea una situazione in cui la legge non è uguale per tutti, ma dipende dall’allineamento ideologico e geopolitico degli stati.

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