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Su Fabbrica della Comunicazione, la rubrica dedicata all’economia e alle politiche dell’Unione europea, a a cura di Beatrice Silenzi – giornalista e direttore responsabile – con Fabio Sarzi Amadè si chiama Spazio Economico.

Ritorna l’appuntamento con la storia dell’economia, affrontando il 1992, un anno indimenticabile, sotto molti punti di vista. Sarzi Amadè ne ha parlato anche nel suo libro “Zappa sui Piedi”, sottolineando che proprio nel 1992, in Italia finiva il Novecento.

L’anno 1992 rappresenta uno spartiacque cruciale nella storia contemporanea italiana, un periodo talmente denso di avvenimenti epocali da essere definito da alcuni analisti come la vera fine del Novecento per il paese.
In un lasso di tempo straordinariamente breve, l’Italia si trovò al centro di una tempesta perfetta, scaturita da una complessa interazione di dinamiche interne e sconvolgimenti internazionali.
Comprendere la portata e le conseguenze di quegli eventi richiede un’analisi approfondita del contesto storico che li precedette e li generò.

Gli eventi del 1992 non furono fulmini a ciel sereno, bensì il risultato di lunghe preparazioni e di tendenze maturate nel corso degli anni precedenti.
Per identificare le radici di quel “annus horribilis” per la Repubblica Italiana, è utile fissare un punto di partenza significativo, pur nella consapevolezza della complessa concatenazione degli eventi storici.

Un momento cardine è indubbiamente la caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre 1989. Sebbene la data precisa possa aver colto di sorpresa alcuni, il crollo del blocco sovietico era un processo ampiamente previsto e in atto da diversi anni.
Già nel marzo 1985, con l’ascesa di Michail Gorbačëv a segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, erano state avviate la perestrojka (riforma) e la glasnost (trasparenza), processi che, pur fallendo nei loro intenti originari, innescarono dinamiche irreversibili.

Movimenti per l’indipendenza, partiti dai Paesi Baltici già nell’86 – con la Lituania che dichiarò l’indipendenza nel marzo 1990 – segnalavano un cambiamento epocale: la fine della Guerra Fredda e del mondo diviso in due blocchi contrapposti, con l’apparente trionfo del modello neoliberista.
L’episodio stesso della caduta del Muro di Berlino è emblematico di come grandi eventi storici possano essere accelerati da circostanze quasi casuali.

Durante una conferenza stampa la sera del 9 novembre, Gunter Schabowski, portavoce del Partito Comunista della Germania Est, annunciò la decisione di non bloccare più la frontiera verso Ovest.
Alla domanda del giornalista italiano Riccardo Ehrman su quando la misura sarebbe entrata in vigore, Schabowski, impreparato e reduce dalle ferie, rispose: “Per quanto ne so io, entra in vigore subito”. Questa dichiarazione, trasmessa in diretta televisiva, spinse migliaia di cittadini di Berlino Est a riversarsi verso i varchi, che le guardie di frontiera, sorprese, non fermarono. Le iconiche immagini dei picconi che abbattevano il Muro segnarono simbolicamente la svolta.

Il 1990 fu un anno denso di ulteriori avvenimenti internazionali, inclusi i primi, tragici scontri in Jugoslavia, preludio alla sanguinosa guerra che avrebbe devastato la regione per anni.
Per l’Italia, la caduta del Muro ebbe conseguenze dirette e profonde. Solo tre giorni dopo, il 12 novembre 1989, Achille Occhetto, allora segretario del Partito Comunista Italiano, durante la commemorazione della battaglia partigiana della Bolognina, annunciò la cosiddetta “Svolta della Bolognina”, aprendo alla possibilità di un cambiamento radicale, incluso il nome del partito.
Questo processo portò, nel 1991, alla fine del PCI e alla nascita del Partito Democratico della Sinistra (PDS).

Il 1991 vide anche il fallito colpo di stato in Unione Sovietica contro Gorbačëv. Sebbene il golpe durò pochi giorni, grazie alla reazione popolare che abbandonò i golpisti, quei momenti di incertezza furono sfruttati da numerose repubbliche sovietiche per dichiarare la propria indipendenza, accelerando la dissoluzione dell’URSS entro la fine dell’anno.

In questo scenario internazionale in rapida e tumultuosa evoluzione, l’Italia viveva anche forti tensioni interne.
Il maxiprocesso alla mafia a Palermo si avviava verso la sua conclusione, mentre nel sottobosco della politica e dell’economia iniziavano a muoversi le prime indagini che sarebbero poi sfociate nello scandalo di Mani Pulite.

Un elemento cruciale, spesso trascurato nel racconto mainstream, è la cosiddetta “Dottrina Webster”.
Nel settembre 1989, pochi mesi prima della caduta del Muro, William Webster, allora capo della CIA, tenne un discorso a Los Angeles di fronte al World Affairs Council.
In quell’occasione, dichiarò che, con la Guerra Fredda ormai prossima alla fine (parlò di “a breve”, indicando una certezza operativa), la nuova missione degli Stati Uniti sarebbe stata la destabilizzazione economica dei paesi rivali, includendo in questa categoria anche gli alleati politici e militari, se considerati concorrenti economici.
Significativamente, secondo alcune interpretazioni e analisi successive, l’Italia fu identificata come uno dei primi, se non il primo, bersaglio di questa nuova strategia.

Il 1992 si distinse per una concentrazione straordinaria di eventi che scossero le fondamenta del sistema politico ed economico italiano.
Si può parlare di un vero e proprio “pokerissimo” di avvenimenti chiave, che, analizzati cronologicamente, rivelano la loro interconnessione e la loro portata devastante.

Il 30 gennaio 1992, la Corte di Cassazione confermò le sentenze del maxiprocesso di Palermo, infliggendo un colpo durissimo a Cosa Nostra.
La reazione della mafia non si fece attendere, esacerbata anche da un indebolimento del pool antimafia di Palermo seguito al pensionamento di Antonino Caponnetto e alla nomina del magistrato Meli al suo posto, una scelta che secondo alcuni non favorì la continuità e l’incisività della lotta alla criminalità organizzata che avrebbe garantito la nomina, auspicata da molti, di Giovanni Falcone.

La vendetta mafiosa si manifestò con una brutalità senza precedenti. Il 12 marzo 1992 fu assassinato Salvo Lima, ex sindaco di Palermo, parlamentare, sottosegretario e, al momento dell’omicidio, eurodeputato. Considerato l’uomo di Giulio Andreotti in Sicilia, Lima era una figura potentissima, con un controllo capillare sugli appalti nell’isola.
Pochi giorni dopo, il 4 aprile, vigilia delle elezioni politiche, venne ucciso il maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli, investigatore esperto e profondo conoscitore degli intrecci mafiosi.

Questi omicidi furono il sinistro preludio alle due stragi che sconvolsero l’Italia e il mondo: la strage di Capaci, il 23 maggio, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta (Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro); e la strage di Via D’Amelio, il 19 luglio, in cui fu ucciso il giudice Paolo Borsellino insieme ai cinque agenti della sua scorta (Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina). Significativamente, la strage di Capaci avvenne mentre il Parlamento era riunito in seduta comune per l’elezione del Presidente della Repubblica.

Se una prima interpretazione vide queste stragi come una reazione diretta alle sentenze del maxiprocesso, negli anni emersero nuove teorie e letture alternative, che puntarono l’attenzione sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia” e sulla questione degli appalti.
Salvo Lima era a conoscenza dei legami profondi tra politica, imprenditoria e mafia, che fungeva da collante per un sistema di appalti truccati che coinvolgeva non solo la Sicilia ma anche aziende e politici del Nord.
Anche il maresciallo Guazzelli stava conducendo indagini che sembravano avvicinarsi a queste conclusioni.

Esistono resoconti di scambi tra Falcone e Borsellino, nelle settimane successive alla morte di Guazzelli, in cui i due magistrati si interrogavano sulla possibilità che l’investigatore fosse andato vicino a scoprire nomi e meccanismi di questo complesso intreccio.
Si ipotizza che l’agenda rossa di Paolo Borsellino, misteriosamente scomparsa dopo l’attentato, contenesse appunti cruciali su questi temi. Indipendentemente dalla motivazione ultima, l’effetto di questa offensiva mafiosa fu profondamente destabilizzante per il paese.

Il 7 febbraio 1992, a Maastricht, nei Paesi Bassi, venne firmato il Trattato sull’Unione Europea.
Questo trattato rappresentò una svolta fondamentale nel processo di integrazione europea, ma per l’Italia si rivelò un passaggio particolarmente critico e, per certi versi, autolesionistico.
L’intero 1991 era stato caratterizzato da intensi negoziati tra i dodici stati membri dell’allora Comunità Economica Europea per definire i parametri di convergenza economica necessari per l’adesione alla futura moneta unica.

L’Italia non solo accettò parametri economici e di finanza pubblica estremamente stringenti, ma, clamorosamente, si rese protagonista nel richiederli e imporli.
Figure come l’allora Ministro del Tesoro Guido Carli si vantarono pubblicamente del fatto che alcuni dei parametri più rigidi fossero frutto di una posizione congiunta italo-britannica.

La differenza sostanziale, tuttavia, era che il Regno Unito aveva già negoziato una clausola di opt-out che gli avrebbe permesso di non adottare l’euro, lasciando l’Italia a confrontarsi da sola con le dure conseguenze di quelle scelte.
L’anno successivo, nel 1993, quando la Commissione Europea, attraverso il commissario alla concorrenza, il britannico Leon Brittan, mise l’Italia con le spalle al muro riguardo al debito pubblico e agli aiuti di stato, fu facile per Bruxelles ricordare a Roma non solo la sua firma in calce al trattato, ma anche il suo ruolo attivo nel definire quelle stesse regole che ora faticava a rispettare.
Un clamoroso esempio di “zappa sui piedi”, come suggerisce il titolo di un libro che analizza questi eventi.

Dieci giorni dopo la firma del Trattato di Maastricht, il 17 febbraio 1992, l’arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, segnò l’inizio ufficiale dell’inchiesta Mani Pulite.
Quella che inizialmente sembrava un’indagine circoscritta sulla corruzione locale si trasformò rapidamente in un terremoto giudiziario che travolse l’intera classe politica e imprenditoriale italiana.

Numerosi studi, documenti e testimonianze, incluse ammissioni da parte di diplomatici americani, suggeriscono che l’operazione Mani Pulite non fu un evento casuale né preparato in pochi giorni.
Si ipotizza che per anni la CIA e agenti italiani incaricati dall’intelligence statunitense avessero indagato su specifici soggetti politici ed economici.
L’appartenenza politica degli inquisiti non sembrò casuale: il Partito Socialista Italiano e l’area di centro-destra della Democrazia Cristiana furono i bersagli principali, ovvero quelle forze politiche che avrebbero potuto opporre maggiore resistenza a un cambio di paradigma economico e politico orientato verso una maggiore liberalizzazione e una riduzione del ruolo dello Stato nell’economia, in linea con gli interessi della finanza internazionale.

I giudici del pool di Mani Pulite – tra cui Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo – divennero vere e proprie star mediatiche, osannati dall’opinione pubblica come salvatori della patria.
I processi venivano trasmessi in televisione, e manifestazioni popolari sostenevano l’azione dei magistrati. Anche qui emergono aspetti inquietanti. Interviste rilasciate nel 2012 da Peter Semler, console americano a Milano all’epoca di Mani Pulite, e da Reginald Bartholomew, ambasciatore USA in Italia dal 1993, rivelarono che il pool di magistrati riferiva in anticipo le proprie mosse e i futuri arresti a diplomatici statunitensi.
Questa circostanza, se confermata, getterebbe un’ombra pesante sulla sovranità nazionale e sull’autonomia della magistratura italiana in un momento così delicato per la vita del paese.

Un altro episodio significativo riguarda l’incontro, organizzato da Bartholomew, tra Antonin Scalia, giudice della Corte Suprema americana di origine italiana, e sette magistrati del pool di Mani Pulite, avvenuto a Roma.
In quell’occasione, Scalia avrebbe criticato l’uso estensivo della detenzione preventiva da parte dei giudici italiani, sostenendo che violasse i principi del diritto anglosassone.
Il fatto che un giudice americano, seppur di origini italiane, intervenisse per impartire lezioni di diritto a magistrati italiani impegnati in un’inchiesta di tale portata, senza che ciò sollevasse particolari reazioni ufficiali, è un ulteriore indicatore del clima di subalternità che si respirava.

Il 2 giugno 1992, mentre l’Italia avrebbe dovuto celebrare la Festa della Repubblica, si svolse un incontro tanto discreto quanto cruciale a bordo del panfilo reale Britannia, al largo delle coste italiane, tra Civitavecchia e l’Isola del Giglio.
Questo evento, a lungo avvolto da un alone di mistero, è considerato da molti analisti il momento in cui fu di fatto pianificata la grande stagione delle privatizzazioni italiane.

L’autunno del 1992 fu segnato da un violento attacco speculativo contro la Lira, orchestrato principalmente dal finanziere George Soros.
Anche questo evento non fu casuale, ma il risultato di una serie di vulnerabilità create da scelte politiche ed economiche precedenti.

Nel gennaio 1990, Carlo Azeglio Ciampi, allora Governatore della Banca d’Italia, decise di spostare la Lira dalla banda di oscillazione larga (6%) a quella stretta (2,25%) all’interno del Sistema Monetario Europeo (SME).
Lo SME prevedeva cambi semifissi tra le valute europee rispetto all’ECU (European Currency Unit), un paniere di valute che fungeva da precursore dell’Euro.
La banda larga aveva fino ad allora permesso all’Italia una maggiore flessibilità nella gestione del cambio, proteggendola parzialmente dagli attacchi speculativi e riducendo la necessità di interventi massicci da parte della Banca Centrale per difendere le riserve valutarie.

La motivazione ufficiale per il passaggio alla banda stretta fu quella di conferire maggiore credibilità alla Lira sui mercati internazionali, una giustificazione che appare debole alla luce degli eventi successivi e del contesto della “Dottrina Webster”, che vedeva l’Italia come un bersaglio primario per la destabilizzazione economica.

Tra maggio e agosto del 1992, le agenzie di rating Standard & Poor’s e Moody’s declassarono il debito pubblico italiano, fornendo previsioni pessimistiche che alimentarono ulteriormente la speculazione.
Di fronte a questa pressione, Ciampi insistette nel difendere il cambio della Lira all’interno della banda stretta, rifiutandosi di svalutare o di tornare a una banda più ampia.

L’unica leva a sua disposizione fu l’aumento drastico dei tassi di interesse, che passarono dal 13,5% al 15%, livelli oggi inimmaginabili. Questo avrebbe dovuto incentivare l’acquisto di titoli di stato italiani, ma la finanza internazionale, presumibilmente già coordinata, non rispose come sperato, acquistando titoli in misura ridotta e lasciando lo Stato a corto di capitali.

La situazione precipitò al punto da costringere il governo Amato, con il Ministro del Tesoro Piero Barucci e il Ministro del Bilancio Franco Reviglio (in realtà il prelievo fu deciso dal governo Amato I, dove il Ministro del Tesoro era Giovanni Goria, e Amato era Presidente del Consiglio), a un prelievo forzoso dello 0,6% su tutti i conti correnti bancari nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1992.
L’aneddoto che circonda questa decisione è surreale: si narra che, intorno alle 4 del mattino, di fronte a un ammanco di 8.000 miliardi di lire, fu Goria ad avere l’idea del prelievo. Amato acconsentì, a patto di avere il via libera di Ciampi.

Il giorno dopo, durante una riunione del Consiglio dei Ministri, Amato chiese a Goria, seduto lontano, se avesse consultato Ciampi. Goria, fraintendendo, annuì. Basandosi su quel presunto assenso, Amato propose e ottenne l’approvazione del prelievo. Solo a riunione conclusa si chiarì l’equivoco.
Un provvedimento di tale gravità, deciso sulla base di un labiale non compreso, offre uno spaccato sconcertante della gestione della crisi.

L’ostinazione nel difendere un cambio insostenibile, unita alla mancata collaborazione da parte delle altre banche centrali europee – la Bundesbank tedesca dichiarò esplicitamente che non avrebbe più sostenuto la Lira, e anche la Banca di Francia e la Banca d’Inghilterra si mostrarono fredde alle richieste di aiuto italiane – portò al collasso.
Tra fine agosto e inizio settembre, furono bruciati circa 48 miliardi di dollari di riserve valutarie nel tentativo disperato di salvare la Lira. George Soros, sfruttando la situazione, lanciò una massiccia speculazione al ribasso (vendita allo scoperto), che costrinse infine l’Italia, il 13 settembre 1992, a svalutare la Lira del 7% e a uscire temporaneamente dallo SME (rientrerà nel 1996).

Complessivamente, la Lira perse circa il 30% del suo valore rispetto al Marco tedesco in poche settimane. Questo significò non solo un aumento dell’inflazione importata, ma anche che i “gioielli di famiglia” italiani, le grandi aziende pubbliche in procinto di essere privatizzate, diventavano improvvisamente molto più economici per gli acquirenti stranieri.

La cosa più sconcertante è che, proprio nei giorni dell’attacco alla Lira e del drammatico prelievo forzoso, il Parlamento italiano, con una maggioranza del 90% dei votanti sia alla Camera che al Senato, approvò la ratifica del Trattato di Maastricht.
Mentre il paese subiva un attacco finanziario devastante e i partner europei negavano il loro supporto, la classe politica italiana procedeva imperterrita sulla strada tracciata a Maastricht, dimostrando una sconcertante mancanza di visione o, peggio, una complicità con dinamiche esterne.

L’incontro del 2 giugno 1992 a bordo del panfilo reale Britannia merita un approfondimento specifico, data la sua importanza strategica nella definizione delle future politiche di privatizzazione italiane.
L’evento fu organizzato dai cosiddetti “Invisibles” britannici, un termine che identificava una potente corporazione di entità operanti nel settore dei servizi finanziari, brevetti, turismo e, soprattutto, della finanza, con sede nella City di Londra.

Questo gruppo includeva colossi bancari come Barclays, Baring Brothers, Warburg, strettamente collegati anche a grandi banche d’affari americane come Goldman Sachs e Salomon Brothers.
L’idea di utilizzare il panfilo Britannia, un’imbarcazione di 126 metri con quasi 200 persone di equipaggio, per incontri di promozione degli interessi finanziari britannici, dietro compenso, fu di un certo Sir Jeffrey Sterling (allora presidente di P&O, che gestiva il panfilo).
Il costo giornaliero del Britannia, attualizzato, è stato stimato in circa 60.000 euro.

La regina Elisabetta II e il consorte Filippo erano stati in visita ufficiale a Malta nei giorni precedenti.
Nel tragitto verso Malta, si fermarono significativamente a Palermo il 26 maggio, per rendere omaggio alle vittime della strage di Capaci, avvenuta solo tre giorni prima.
Al ritorno da Malta, la coppia reale sbarcò nuovamente a Palermo e rientrò nel Regno Unito in aereo, mentre il panfilo proseguì la navigazione verso Civitavecchia.
Questo complesso itinerario suggerisce una pianificazione accurata e non estemporanea dell’incontro del 2 giugno.

A bordo salirono circa un centinaio di ospiti selezionati: la crema dell’imprenditoria pubblica italiana e della finanza anglosassone.
Sebbene non esista una lista ufficiale dei partecipanti né resoconti giornalistici dettagliati dell’epoca – l’evento doveva rimanere il più possibile riservato – col tempo sono emerse diverse informazioni.

Tra gli italiani presenti figuravano Mario Draghi, allora Direttore Generale del Tesoro; Riccardo Gallo, vicepresidente dell’IRI (il più grande ente pubblico economico italiano); il presidente dell’INA Assitalia, Lorenzo Pallesi; il presidente dell’ENI, Gabriele Cagliari (la cui storia si concluse tragicamente con il suicidio in carcere durante Mani Pulite, uno dei 41 suicidi tra gli indagati dell’inchiesta); il presidente della SNAM (controllata ENI), Pio Pigorini; il Direttore Generale di Confindustria, Innocenzo Cipolletta; l’economista Luigi Spaventa, che sarebbe poi diventato Ministro del Bilancio nel governo Ciampi. Erano presenti anche tre giornalisti, uno dei quali, anni dopo, confermò la sua partecipazione e quella di altri due colleghi.
Da parte britannica e internazionale, erano presenti prevalentemente banchieri e finanzieri.

Il discorso tenuto da Mario Draghi a bordo del Britannia rimase inedito per ben 27 anni, fino alla sua pubblicazione da parte del Fatto Quotidiano nel gennaio 2020 (la fonte non fu dichiarata, ma l’autenticità del testo non è mai stata smentita). Draghi, secondo quanto da lui stesso riferito in una successiva audizione parlamentare, sarebbe salito a bordo per un breve saluto introduttivo, su incarico del governo, per poi sbarcare.

L’audizione fu richiesta dopo che l’economista e politico americano Lyndon LaRouche, in un articolo sulla sua rivista “Executive Intelligence Review”, aveva descritto l’incontro sul Britannia come un’operazione per “spennare l’economia italiana”.
Draghi, in commissione, minimizzò l’evento, descrivendolo come un incontro di formazione in cui gli esperti inglesi, forti dell’esperienza delle privatizzazioni dell’era Thatcher, avrebbero dovuto istruire i “Novellini” dirigenti italiani.
Una spiegazione poco convincente, considerando che da parte inglese erano presenti quasi esclusivamente banchieri e non dirigenti di aziende privatizzate.

Il testo del discorso di Draghi, di circa 1600 parole, rivela invece un intervento programmatico e tutt’altro che di mero saluto.
Draghi ringraziò l’ambasciata britannica e gli “Invisibles” per l’organizzazione, definendo ironicamente l’evento un “perfetto esempio di privatizzazione di bene pubblico”, riferendosi all’uso del panfilo reale.
Nel suo intervento, durato circa 15-20 minuti, Draghi delineò chiaramente le direttrici della futura stagione delle privatizzazioni italiane, focalizzandosi su quattro leve principali:

Destinati non alla copertura del deficit corrente, ma alla riduzione del debito pubblico.
Questa distinzione, apparentemente tecnica, è cruciale: mentre il deficit è un flusso annuale, il debito è uno stock accumulato.
Ridurre il debito con entrate straordinarie (one-off) come quelle delle privatizzazioni, senza agire sulle cause strutturali del deficit, è una strategia di corto respiro che, secondo i critici, serve più a rassicurare i mercati finanziari che a risanare durevolmente le finanze pubbliche.

Un minor debito pubblico avrebbe aumentato la credibilità dei titoli di Stato italiani, portando a una diminuzione dei loro rendimenti. Questo, secondo Draghi, avrebbe disincentivato i risparmiatori italiani dall’investire massicciamente in Buoni Ordinari del Tesoro (BOT) – negli anni ’80 gli italiani erano noti come “BOT people” per la loro propensione a questo tipo di investimento – spingendoli verso i mercati azionari e contribuendo così a rafforzare il sistema borsistico nazionale.

Le privatizzazioni e le conseguenti deregolamentazioni avrebbero reso più difficile per il governo italiano perseguire “obiettivi non di mercato”. Tra questi, veniva implicitamente inclusa la lotta alla disoccupazione, considerata quindi secondaria rispetto alle logiche di mercato.

Le privatizzazioni avrebbero ridotto la centralità della politica nella gestione delle aziende. Questa affermazione è stata successivamente smentita da diversi studi, tra cui quello di David Parker, storico ufficiale del governo inglese sulle privatizzazioni. Nel suo lavoro del 2021, Parker conclude che la privatizzazione non ha affatto allontanato la “mala politica” dalla gestione aziendale, specialmente in Italia, dove le aziende strategiche sono rimaste sotto influenza governativa e dove le privatizzazioni, soprattutto a partire dal 1999-2000, non sono avvenute tramite public company (azionariato diffuso), ma attraverso l’assegnazione a grandi istituti finanziari o cordate mirate.

Infine, Draghi concluse il suo discorso affermando che i mercati internazionali consideravano le privatizzazioni del governo italiano come la “cartina di tornasole” della sua sottomissione (“dipendenza” nel testo originale) ai mercati stessi. Una dichiarazione che sanciva esplicitamente il nuovo paradigma: il predominio della finanza sulla politica, uno degli obiettivi che, secondo alcune letture, era anche sotteso all’operazione Mani Pulite, volta a eliminare quella classe dirigente che si opponeva a tale supremazia.

Le conseguenze dell’incontro sul Britannia non si fecero attendere. Poco più di un mese dopo, il governo Amato I trasformò in Società per Azioni quattro dei maggiori enti pubblici italiani: IRI, ENI, ENEL (Ente Nazionale per l’Energia Elettrica) e INA Assitalia (Istituto Nazionale delle Assicurazioni). Era il primo, decisivo passo verso la loro successiva privatizzazione.

Gli eventi del 1992, apparentemente distinti, convergono a formare un quadro coerente di profonda trasformazione, se non di vero e proprio smantellamento, di un certo modello economico e politico italiano. Mafia, Maastricht, Mani Pulite, Britannia e attacco alla Lira appaiono come tasselli di un mosaico complesso, in cui le dinamiche interne si intrecciarono con pressioni e interessi internazionali.

La classe politica italiana dell’epoca appare, nel migliore dei casi, inadeguata e incapace di comprendere la portata dei cambiamenti in atto; nel peggiore, complice o supina di fronte a forze che miravano a ridisegnare gli equilibri di potere a scapito della sovranità nazionale e dell’interesse collettivo.
Gli errori furono troppo clamorosi e le coincidenze troppo numerose per essere liquidate come semplice frutto del caso o dell’incompetenza.

Le conseguenze di quelle sciagurate mosse e di quell’anno terribile si fanno sentire ancora oggi.
La perdita di asset strategici, l’aumento del debito pubblico (nonostante le privatizzazioni), l’indebolimento del tessuto industriale, la crescente precarietà del lavoro e la progressiva erosione della sovranità economica e politica sono, in parte significativa, l’eredità di quel 1992 che segnò una drammatica “Zappa sui piedi” per l’Italia, un colpo da cui il paese fatica ancora a riprendersi completamente. La comprensione di quegli eventi rimane fondamentale per interpretare le sfide del presente e per tentare di tracciare un futuro diverso.

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