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La rubrica L’Altra Domenica è a cura dello scrittrice e giornalista Enrica Perucchietti e Beatrice Silenzi, direttore responsabile di Fabbrica della Comunicazione.

Bill Gates e Il Futuro Scritto dai Titani Tech: Tra Clima “Rinegoziato”, Lavoro Automatizzato e Contenuti Svaniti

C’è stato un tempo, non molto lontano, in cui Bill Gates era il profeta di un’imminente apocalisse climatica.
Con il suo libro “Come evitare un disastro climatico”, pubblicato solo pochi anni fa, il co-fondatore di Microsoft aveva tracciato una linea netta, spingendo governi e opinione pubblica verso un allarmismo quasi messianico sulla necessità di decarbonizzare il pianeta a ogni costo.

Oggi, a 70 anni appena compiuti, lo stesso Gates cambia radicalmente rotta, affermando con sorprendente serenità che, sebbene il cambiamento climatico avrà conseguenze gravi, “non porterà alla fine dell’umanità”. Anzi, le persone “potranno vivere e prosperare”.

Questo non è un semplice aggiustamento di tiro, ma un’inversione a U che lascia interdetti e solleva interrogativi profondi, non tanto sul clima in sé, quanto su chi ne detta l’agenda globale.
Gates invita ora a un approccio “proporzionato e razionale”, spostando l’attenzione sulle vere priorità dei Paesi più poveri: la fame e le malattie.

Un cambio di prospettiva che, secondo i più maliziosi, potrebbe non derivare da un’improvvisa illuminazione senile, ma da un fiuto finissimo per gli affari e per il potere.
Un tentativo, forse, di saltare sul carro dei vincitori, strizzando l’occhio a correnti politiche come quella di Donald Trump e a un’inversione di tendenza globale che vede in crisi gli investimenti “green” e l’ideologia “woke”.

La vicenda mette a nudo i meccanismi del cosiddetto “filantrocapitalismo”.

Un modello in cui la beneficenza diventa uno strumento per espandere la propria sfera d’influenza.
Come evidenziato da critici come la sociologa Linsey McGoey nel suo libro “Altro che filantropi”, non si tratta di semplice generosità.

Investire miliardi in organizzazioni come l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) permette a fondazioni private di esercitare pressioni sui governi, dettando di fatto le politiche globali e creando un pericoloso conflitto di interessi.
L’idea che questi “benefattori” agiscano per il bene collettivo si scontra con una realtà in cui la filantropia è, prima di tutto, un’impresa che genera potere.

Se Gates ridisegna le priorità globali con un post sul suo blog, altri giganti della tecnologia stanno ridisegnando il futuro del lavoro con una freddezza altrettanto disarmante.
È il caso di Amazon, che ha recentemente annunciato il licenziamento di migliaia di dipendenti.
I numeri ufficiali parlano di 14.000 tagli, ma fonti interne suggeriscono che si potrebbe arrivare fino a 30.000.

La vera notizia, però, non è il numero, ma la natura di questi licenziamenti. A finire a casa non sono solo i lavoratori dei magazzini, ma soprattutto i “colletti bianchi”: manager e impiegati d’ufficio.
La motivazione non è una crisi di bilancio, ma una scelta strategica precisa: puntare tutto sull’intelligenza artificiale. Amazon sta investendo miliardi in automazione, algoritmi predittivi e IA generativa, tecnologie che rendono superflue intere categorie di lavori intellettuali.

Si sta avverando quella profezia, lanciata da anni, del “disboscamento degli umani”: l’automazione non sta semplicemente migliorando il lavoro umano, lo sta cancellando.
Alla faccia delle promesse di un progresso che avrebbe dovuto liberarci dalla fatica e regalarci più tempo libero.
Per migliaia di persone, questo “tempo libero” si tradurrà in disoccupazione.
Questo scenario crea un paradosso sociale inquietante.

Mentre l’intelligenza artificiale rende superflui migliaia di lavoratori qualificati, in altre parti del mondo, come in Grecia, il parlamento approva leggi che estendono la giornata lavorativa fino a 13 ore.
Questa misura, seppur presentata come “volontaria” e limitata nel tempo, fotografa una realtà distopica: un futuro diviso tra chi non ha un lavoro perché sostituito da una macchina e chi ne ha uno con condizioni sempre più estreme e disumane.

La rivoluzione dell’IA non si ferma ai cancelli delle fabbriche o agli uffici manageriali.
Sta già erodendo le fondamenta stesse di internet come lo conosciamo. Ne è un esempio lampante il caso di Salvatore Aranzulla, l’imprenditore digitale il cui sito, per anni, è stato un punto di riferimento per chiunque cercasse una soluzione a un problema tecnologico.

Aranzulla ha recentemente denunciato un crollo del traffico del 25% a causa delle nuove funzioni dei motori di ricerca. L’intelligenza artificiale, infatti, non si limita più a indicizzare i contenuti, ma li “digerisce” e ne offre un riassunto direttamente all’utente, bypassando la fonte originale.

Questo meccanismo, che sta mettendo in crisi persino colossi come Wikipedia, rompe il patto implicito su cui si è basato il web per decenni: i creatori forniscono contenuti di qualità e i motori di ricerca portano traffico, monetizzabile con la pubblicità.
Ora, questo modello sta saltando, con danni enormi per l’editoria e per chiunque produca informazione online.
Ci troviamo di fronte a una rivoluzione totale, un “Far West” in cui le regole vengono scritte non dai governi o dalle comunità, ma da un pugno di colossi della Big Tech.

Personaggi come Sam Altman di OpenAI o Elon Musk non stanno solo creando nuovi prodotti; stanno decidendo quale sarà il futuro del lavoro, dell’informazione e, in definitiva, della nostra società.
La domanda che dobbiamo porci è se questo futuro, disegnato da pochi e basato sull’efficienza algoritmica, sia davvero il futuro che vogliamo.

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