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La rubrica L’Altra Domenica è a cura dello scrittrice e giornalista Enrica Perucchietti e Beatrice Silenzi, direttore responsabile di Fabbrica della Comunicazione.
UN MONDO ARTIFICIALE. BEBÈ A CATALOGO E CIBO OGM
Ci avviciniamo al Natale, un periodo che tradizionalmente richiama al calore umano, alla famiglia e alla spiritualità. Eppure, mai come in questo momento storico, l’atmosfera che ci circonda sembra pervasa da una sottile ma inesorabile trasformazione: l’avanzata dell’artificiale.
Non si tratta più solo di intelligenza artificiale generativa o di algoritmi che governano le nostre scelte digitali; il confine si è spostato molto più in là, toccando la carne, la biologia e l’essenza stessa della vita.
Dalle decorazioni natalizie ai piccoli animali robotici che simulano affetto senza richiedere cura, fino ai progetti più ambiziosi e inquietanti della Silicon Valley, sembra che l’umanità stia cercando di riscrivere il codice della realtà per eliminare ogni imprevisto, ogni fragilità e, in ultima analisi, ogni traccia di natura incontrollata.
Il cuore di questa trasformazione risiede in una nuova forma di eugenetica, ripulita e resa accattivante dal marketing delle Big Tech. Se il Novecento ci aveva illuso di aver chiuso definitivamente la porta alle teorie sulla selezione della razza, il XXI secolo le sta facendo rientrare dalla finestra, sotto la rassicurante etichetta della “prevenzione” e del “miglioramento”.
Al centro del dibattito ci sono startup biotecnologiche come Preventive e la più recente Nucleus Genomics, finanziate dai soliti noti dell’élite tecnologica, tra cui figure di spicco come Peter Thiel e Sam Altman (il creatore di OpenAI). Queste aziende non si limitano a promettere la salute; vendono il sogno del controllo totale. Attraverso screening poligenici avanzati, offrono ai futuri genitori la possibilità di selezionare gli embrioni non solo per evitare gravi malattie genetiche, ma per ottimizzare le caratteristiche del nascituro.
La campagna pubblicitaria di Nucleus Genomics, che ha tappezzato la metropolitana di New York, è emblematica: immagini patinate di neonati bellissimi accompagnate da slogan come “Scegli il tuo bambino migliore”. È un marketing aggressivo che equipara la vita umana a un prodotto di lusso, un bene di consumo da personalizzare. Siamo di fronte a una mentalità che ricorda il film distopico Gattaca, dove la nascita naturale è vista come un errore e la perfezione genetica è l’unico standard accettabile.
Il costo di questi servizi, che si aggira intorno ai 30.000 dollari, chiarisce subito che si tratta di una pratica elitaria. Ma il problema non è solo economico, è profondamente etico e filosofico. Si sta sdoganando l’idea che un figlio non sia un dono da accogliere, ma un progetto da commissionare. Cosa accade se il “prodotto” non rispetta le specifiche? Se il bambino “progettato” per essere alto, biondo e sano sviluppa caratteristiche diverse o impreviste?
La logica del consumismo, applicata alla vita umana, apre scenari agghiaccianti sul rifiuto dell’imperfezione e sulla mercificazione dell’esistenza.
Questa deriva “prometeica” nasce da una profonda insicurezza umana mascherata da onnipotenza. C’è il desiderio di abolire la fragilità, di eliminare il rischio intrinseco alla vita biologica. È la stessa logica che porta alcune persone a preferire l’acquisto di un animale domestico clonato o di una specifica razza “perfetta” piuttosto che adottare un cucciolo dal canile, dove la scelta è dettata dall’empatia e dal caso, non da un catalogo.
L’idea che si possa “hackerare” la biologia per ottenere risultati garantiti si scontra però con la complessità della natura. Gli esperti sottolineano che questi screening si basano su probabilità, non su certezze assolute. Vendere la promessa di un bambino senza diabete, senza acne, con un determinato quoziente intellettivo o colore degli occhi è, in molti casi, un’illusione costosa. Eppure, la domanda c’è, alimentata dalla paura della malattia e dal desiderio narcisistico di vedere nel figlio una versione potenziata di sé stessi.
La volontà di riscrivere i processi naturali non si ferma alla riproduzione umana ma investe anche ciò che mangiamo. L’Unione Europea sta spingendo verso la deregolamentazione delle cosiddette TEA (Tecniche di Evoluzione Assistita), o New Genomic Techniques. Dietro questo acronimo tecnico si nasconde una realtà che preoccupa associazioni ambientaliste e agricoltori biologici: si tratta, di fatto, di nuovi OGM.
La proposta legislativa mira a dividere questi nuovi organismi in due categorie, di cui la prima — che copre circa il 94% dei casi — sarebbe esente dall’obbligo di etichettatura e tracciabilità.
Questo significa che i consumatori potrebbero trovarsi nel piatto alimenti modificati geneticamente senza saperlo e senza poter scegliere.
Anche qui, la narrazione è quella del miglioramento: piante più resistenti, rese maggiori. Ma il rovescio della medaglia è il controllo monopolistico delle sementi da parte delle multinazionali, la perdita di biodiversità e l’impossibilità per l’agricoltura biologica di garantire la propria purezza a causa della contaminazione inevitabile dei campi.
Come per i bambini in provetta, anche per il pomodoro o la pannocchia si cerca il “prodotto perfetto”, esteticamente ineccepibile, standardizzato, scartando tutto ciò che presenta la minima imperfezione naturale.
Conclusione: un 2025 all’insegna della resistenza umana?
Mentre ci avviamo verso il 2025 e oltre, il bilancio che ne emerge è quello di un’umanità che sta progressivamente divorziando dalla natura. Dall’utero artificiale alle sementi brevettate, il filo conduttore è la sostituzione dei cicli biologici con processi industriali e algoritmici.
Il Natale, con la sua simbologia di nascita povera, umile e profondamente “umana”, stride violentemente con questa visione asettica e iper-tecnologica. Forse, il vero buon proposito per il futuro non è cercare di essere “più cattivi” o più efficienti, ma riscoprire il valore della fragilità e dell’accettazione.
Dobbiamo chiederci se vogliamo davvero vivere in un mondo dove il gatto è un robot, il bambino è un design genetico e il cibo è un brevetto di laboratorio. La perfezione artificiale, per quanto seducente, è fredda e priva di anima.
La vita vera, con i suoi difetti, i suoi imprevisti e le sue cicatrici, possiede una bellezza che nessun algoritmo della Silicon Valley potrà mai replicare. Fermarsi a riflettere su questa deriva non è luddismo, ma un necessario atto di autocoscienza per non svegliarci un giorno in un mondo dove tutto funziona perfettamente, ma dove nulla è più autenticamente vivo.
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