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Su Fabbrica della Comunicazione la rubrica Dimensione Arte è cura di Giorgio Pandini – musicista e blogger.

Di lui ci resta un vastissimo catalogo di composizioni ma pochissime e scarne notizie biografiche, dopo la sua scomparsa il suo lavoro si è perso nell’oblio dei secoli finché grazie alle trascrizioni che delle sue opere ha fatto Johann Sebastian Bach e grazie al meticoloso lavoro di diversi musicologi il suo lascito artistico ha ritrovato la luce definitivamente.

Parlo di Antonio Vivaldi.

È il venerdì del 4 marzo 1678 quando a Venezia viene alla luce il piccolo Antonio Lucio Vivaldi, suo padre Giovanni Battista svolge una duplice professione quella di barbiere e quella di violinista.
Nel 1685 il padre ottiene un ingaggio stabile come violinista della basilica di San Marco e quattro anni più tardi diviene anche insegnante di violino presso l’Ospedale dei Mendicanti.

Antonio quindi cresce in un ambiente estremamente stimolante dal punto di vista culturale, come era la Venezia dell’epoca, ed in particolare in ambito musicale. Impara quindi a suonare il violino dimostrando un talento particolare per lo strumento, viene ammesso tra la cerchia dei musicisti della basilica.

In aggiunta alla sua formazione di musicista nel 1693 viene avviato alla carriera ecclesiastica iniziando l’iter che lo porterà a prendere i voti sacerdotali nel 1703.
Nel frattempo però continua a lavorare accanto al padre ottenendo anche l’incarico di violinista aggiunto per le funzioni solenni in San Marco.

Risale a questo periodo il soprannome di “prete rosso” che gli venne affibbiato dai contemporanei quasi certamente per il colore dei suoi capelli uguale a quello del padre anch’egli conosciuto a sua volta con l’appellativo di “rossetto” per lo stesso motivo.

La sua costituzione fragile causata da una patologia non ben identificata di cui Vivaldi soffre sin dalla nascita e da lui citata come “strettezza di petto” gli varrà dal 1704 la dispensa dalla celebrazione della messa.
È ormai opinione comune tra gli studiosi e i medici che il suo malessere fosse una qualche forma di asma congenita forse bronchiale che gli rese spesso difficile adempiere ai suoi obblighi.

Sempre al 1703 risale anche l’inizio del suo lavoro presso il Pio Ospedale della Pietà, istituzione presso cui il musicista svolse gran parte della sua attività e per cui scrisse un numero enorme di partiture musicali.
Il primo incarico fu quello di maestro di violino, al quale in soli due anni si aggiunsero altri incarichi con il contestuale aumento del compenso: insegnante di viola all’inglese e poi compositore e direttore musicale.

Il Pio Ospedale della Pietà era infatti un orfanotrofio patrocinato dal Doge e finanziato dai ricchi veneziani in cui venivano accolti i bambini abbandonati.
Ai maschi veniva insegnato un mestiere di artigianato, mentre le bimbe erano divise in due gruppi le “Figlie di Comun” che imparavano la filatura della seta ed altre attività domestiche e le “Figlie di Choro” privilegiate rispetto alle prime per aver dimostrato talento nella musica.

Queste ultime erano istruite da maestri capaci raggiungendo livelli artistici notevoli che destavano meraviglia nel pubblico e in chi poteva ammirarne la bravura.
Esistono infatti numerosi resoconti delle loro esecuzioni pubbliche definite spesso come mirabili.
Di fatto si trattava concretamente di un vero e proprio conservatorio femminile, nel quale Vivaldi si trovò a poter comporre per musiciste di talento e con sovrabbondanza di organico, tutt’altra situazione rispetto a quella che toccò in sorte a Bach per la chiesa di San Tommaso a Lipsia.

L’opportunità in cui si trovò ad operare permise a Vivaldi di scrivere non solo musica per orchestra ma di sviluppare anche la forma del concerto per uno o più strumenti.
Ben 329 sono infatti i concerti per i più svariati strumenti solisti tra cui violino, violoncello, flauto, oboe, fagotto e addirittura mandolino, e 45 concerti doppi tra cui si annovera un concerto per due trombe e orchestra che è un unicum per il repertorio di questo strumento.

Oltre alla musica strumentale Vivaldi scrisse musica anche per i teatri, specialmente per il teatro Sant’Angelo di Venezia di cui dal 1714 divenne impresario e direttore artistico e musicale.
Al momento sono state ritrovate circa 50 opere complete a fronte delle 94 che lo stesso compositore afferma di avere scritto. La sua attività non si limitò all’ambito Veneziano ma fu anche internazionale, e la sua musica oltre che in tutta Italia venne eseguita anche all’estero dove lo stesso Vivaldi ebbe modo di recarsi in uno dei suoi viaggi.

Fu a Vienna e Praga per alcuni concerti e alcune delle sue opere furono stampate ad Amsterdam.
Nel 1718 gli fu offerto il prestigioso incarico di Maestro di cappella alla corte di Mantova.
Vivaldi accettò e si trasferì nella città lombarda dove rimase per circa tre anni prima di trasferirsi a Milano e poi a Roma sino a quando nel 1725 fece ritorno a Venezia.

Nel 1728 a Trieste ebbe modo di incontrare di persona l’imperatore Carlo VI che si intrattenne a lungo con lui conferendogli anche delle importanti onorificenze ed invitandolo a Vienna alla sua corte.
Nel frattempo la moda musicale che Vivaldi aveva così prepotentemente incarnato iniziò a mutare e con essa i gusti del pubblico.
Lentamente ma inesorabilmente nel decennio successivo le sue composizioni semplicemente passarono di moda ed iniziarono così i primi problemi finanziari.

Risale al 1737 l’episodio che spinse Vivaldi a lasciare l’Italia, alla vigilia dell’apertura della stagione lirica a Ferrara ricevette un invio dal nunzio apostolico che gli vietò di mettere piede in città, sembra a causa dei pettegolezzi che lo riguardavano circa i suoi rapporti con le ragazze dell’Ospedale della Pietà aggravati dal fatto che non celebrasse mai la messa.

Inutile fu la sua accorata lettera al Cardinale Ruffo, che governava Ferrara, in cui spiegava le sue ragioni che che costituisce per gli studiosi una preziosa fonte di informazioni biografiche, il divieto rimase e Vivaldi decise di accogliere l’invito dell’Imperatore alla corte viennese con la speranza di acquisire magari un incarico musicale.

Poco dopo il suo arrivo a Vienna, nell’ottobre del 1740 però l’imperatore Carlo VI morì e la figlia Maria Teresa dovette fuggire in Ungheria a causa dello scoppio di una guerra di successione su scala europea.
Questo tremendo colpo di sfortuna fu fatale a Vivaldi che si trovò senza protezione, senza lavoro e in gravi difficoltà economiche e bloccato nella capitale austriaca.

Nella notte tra il 27 e il 28 luglio del 1741 Antonio Vivaldi si spense solo e malato. La causa della morte è da imputare probabilmente ad una infezione intestinale ad aggravare le sue già precarie condizioni di salute che l’hanno afflitto per tutta la vita.
La casa dove visse a Vienna fu demolita e al suo posto ora sorge l’hotel Sacher celebre per la sua torta al cioccolato, anche il luogo della sua sepoltura è andato perduto.

In pochissimo tempo la sua memoria semplicemente svanì perdendosi nell’oblio del tempo.
Questo fino ai primi decenni del ‘900 quando, a seguito della riscoperta delle trascrizioni di Bach delle opere di Vivaldi, la musicologia iniziò a mettersi sulle tracce dei suoi manoscritti, lentamente e grazie alla pazienza di alcuni musicologi, la sua musica iniziò a spuntare da diversi archivi privati in numerose parti d’Europa.

La raccolta più corposa però fu ritrovata in due momenti successivi, separata per questioni ereditarie nel corso dei secoli.
La prima parte era custodita in Piemonte nella biblioteca del Collegio Salesiano San Carlo di Borgo San Martino, mentre la seconda fu rintracciata a Genova in una collezione privata, e solo grazie al concorso di due ricchi mecenati e al lavoro di ricerca di Alberto Gentili, il corpus Vivaldiano una volta appartenuta al conte Giacomo Durazzo, ambasciatore d’Austria a Venezia dal 1764 al 1784 fu finalmente donata alla Biblioteca Nazionale di Torino.

Sfortunatamente però Alberto Gentili, a cui furono riservati espressamente i diritti di studio delle partiture, dovette aspettare la fine della seconda guerra mondiale per iniziare ad esaminare la raccolta e fu solo negli anni ’50 che fu possibile pubblicare ed eseguire nuovamente le opere del Prete Rosso.

L’ultima curiosità riguarda un violino opera di Nicola Amati, maestro liutaio di Cremona, che fu donato a Mussolini alla fine di novembre del 1930.
Grazie al ritrovamento di un articolo del giornale La Stampa dell’epoca che riportava la notizia, si è poi scoperto che si trattava in realtà di uno degli strumenti appartenuti ad Antonio Vivaldi e da lui abbandonato a Venezia prima della sua frettolosa partenza finale per Vienna.

Scrisse di lui il celebre musicologo e compositore Remo Giazotto: “Se si volesse ricercare una verità, valutata storicamente, al fondo dell’arte vivaldiana io credo che noi dovremmo indirizzarci, per ritrovarla, non alla forma, ossia al linguaggio concertistico del Vivaldi, bensì allo spirito che anima e sollecita ciascuna delle sue forme: infinite forme, infinite creature viventi sotto uno stesso cielo, respiranti una stessa aria e nutrite di un unico cibo: cielo, aria, nutrimento di dimensioni così vaste, di risorse così inesauribili da poter benissimo, senza alcuna lesina, offrire ristoro, vita, alimento a chiunque vi si fosse rivolto con fede e sicurezza.”

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