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Su Fabbrica della Comunicazione, la rubrica della domenica mattina a cura di Beatrice Silenzi – giornalista e direttore responsabile – con Enrica Perucchietti si chiama L’Altra Domenica.
Le nuove frontiere dell’ingegneria robotica stanno progressivamente trasformando scenari un tempo relegati alla fantascienza in realtà tangibili, portando a conquiste che solo pochi decenni fa sarebbero parse impensabili.
L’idea di un robot umanoide domestico, capace di rassettare, pulire, riordinare e persino rammendare i calzini, non è più un mero costrutto narrativo.
Recentemente, la presentazione di un tale automa a una fiera in Cina ha suscitato reazioni contrastanti: le prestazioni non sono apparse eccelse, evocando piuttosto l’immagine di un goffo dispositivo meccanico, simile ai primi robot aspirapolvere rotondi che si muovono incerti urtando contro gli ostacoli.
L’effetto è stato percepito da alcuni osservatori come vagamente inquietante, non tanto per una minaccia intrinseca, quanto per una sorta di goffaggine meccanica che tradisce l’aspirazione all’efficienza umanoide.
Un video circolato in rete mostrava il robot muoversi tra la folla in un modo che alcuni hanno interpretato non come un semplice urto accidentale, ma quasi come un’intenzione aggressiva, paragonabile a un “Robocop tamarro” colto da un impeto di nervosismo.
Al di là di queste prime, e forse acerbe, dimostrazioni pubbliche, si registra una crescente tendenza a sviluppare robot non solo da compagnia, ma specificamente per mansioni domestiche.
Il progetto Optimus di Elon Musk, ad esempio, mira a introdurre robot umanoidi anche in ambito casalingo.
Esistono già diversi modelli, e circolano video che ritraggono coppie intente a fare colazione in compagnia di questi automi, che, a dispetto del diminutivo “robottino”, sono spesso imponenti strutture metalliche.
L’immagine del piccolo e simpatico robot da cartone animato cede il passo a quella di “bestie” meccaniche che, seppur progettate per assistere, incutono un certo timore.
La preoccupazione si estende al potenziale distruttivo di tali macchine qualora, per un malfunzionamento o un errore di programmazione, la loro forza venisse impiegata in modo incontrollato, passando dal semplice urtare gli spigoli dei mobili allo sradicare elettrodomestici o, in scenari più cupi, a causare danni fisici alle persone.
Questa intrinseca inquietudine generata dalla presenza di macchine antropomorfe è un tema ampiamente dibattuto, specialmente in contesti come il Giappone, dove la bioetica e la riflessione sul design dei prodotti tecnologici sono particolarmente avanzate.
Si discute sulla necessità che tali robot posseggano fattezze e sembianze il più possibile umanoidi proprio per non turbare, per facilitare l’accettazione e l’integrazione.
Figure come Hiroshi Ishiguro, noto per i suoi androidi iperrealistici rivestiti di pelle sintetica al silicone, lavorano proprio su questo confine, cercando di minimizzare l’impatto perturbante della macchina sull’uomo.
L’immaginario collettivo, plasmato da decenni di letteratura e cinematografia fantascientifica (da “Terminator” a “Robocop”), tende a evocare scenari distopici, alimentando una naturale diffidenza verso l’idea di convivere con entità meccaniche così simili, e al contempo così diverse, dall’essere umano.
L’idea di un replicante come il Roy Batty di “Blade Runner” che si aggira per casa potrebbe affascinare alcuni, ma la realtà attuale sembra più vicina a un goffo automa che a un sofisticato androide.
Il cinema, del resto, continua a esplorare queste tematiche. Un film recente, “Companion”, pur con sfumature ironiche, affronta il tema dei robot da compagnia e del “tecnosesso”, interrogandosi su cosa potrebbe accadere se questi androidi non avessero coscienza della propria natura artificiale, riecheggiando le questioni sollevate in “Blade Runner”.
La distanza tra l’immaginario cinematografico di un androide capace e affascinante e la realtà di un robot domestico che, nella migliore delle ipotesi, potrebbe pelare patate o rammendare calzini, ma che più realisticamente assomiglierebbe a una versione impacciata di Schwarzenegger in “Terminator”, è ancora significativa.
Le abitazioni moderne, spesso di dimensioni contenute, mal si presterebbero alla convivenza con automi ingombranti, destinati a urtare continuamente contro mobili e oggetti, generando frustrazione più che aiuto, fino a un ipotetico “esaurimento” della macchina stessa.
Un’ulteriore fonte di inquietudine emerge da prodotti seriali come “Cassandra”, un thriller che esplora le dinamiche perturbanti di un robot domestico che considera la casa come propria, relegando gli umani al ruolo di ospiti.
In questo caso, l’ansia non deriva da una goffaggine meccanica, ma da una sottile inversione dei ruoli e da un’affermazione di territorialità che, sebbene non paragonabile a quella di un animale domestico, introduce nuove complessità nella relazione uomo-macchina.
Questa serie, segnalata per il suo stile affine a “Black Mirror”, induce una riflessione profonda sulle implicazioni psicologiche della coabitazione con intelligenze artificiali avanzate.
Parallelamente al dibattito sui robot domestici, si fa strada la questione dell’utilità e dei rischi di altre forme di robotica applicata.
L’esempio del “cane lanciafiamme”, un robot quadrupede equipaggiato con un dispositivo incendiario, solleva interrogativi etici e pratici.
Se da un lato potrebbe rappresentare un deterrente efficace contro malintenzionati, come nel caso delle truffe agli anziani, dove la vittima potrebbe scatenare il “Fuffinator” contro l’aggressore, dall’altro apre scenari di abuso e pericolo, come l’utilizzo irresponsabile per spaventare vicini o per risolvere futili dispute.
L’immagine di un tale dispositivo utilizzato per “sparare fuoco sulle persone che fanno troppo casino a Capodanno” è tanto grottesca quanto emblematica dei rischi connessi a una tecnologia potente e accessibile.
Al di là delle singole applicazioni robotiche, l’impatto dell’intelligenza artificiale (IA) sulla società e sulla cultura è un tema sempre più centrale.
Recentemente, circa mille artisti inglesi, tra cui figure di spicco come Annie Lennox, Damon Albarn e Kate Bush, hanno partecipato alla creazione di un “album muto”, una traccia di silenzio prolungato, come forma di protesta contro le politiche del Regno Unito in materia di intelligenza artificiale e il loro potenziale impatto negativo sul mondo della musica.
Questa iniziativa evidenzia una crescente preoccupazione nel settore creativo riguardo alla regolamentazione e all’uso dell’IA.
È in questo contesto che riemerge con forza una critica a chi sostiene che l’intelligenza artificiale sia “arrivata senza che ce ne rendessimo conto”.
Tale affermazione appare fuorviante: l’avanzata dell’IA non è stata un processo occulto o silenzioso, bensì un fenomeno ampiamente discusso e annunciato.
Se oggi le capacità di sistemi come ChatGPT o Grok iniziano a inquietare un pubblico più vasto, e se l’impatto dell’automazione e dell’IA sul lavoro e sulla creatività comincia a preoccupare anche gli artisti, ciò non è dovuto a una subitanea apparizione di queste tecnologie.
Al contrario, per almeno l’ultimo decennio, numerosi ricercatori, economisti, statisti, filosofi e intellettuali hanno tentato di sensibilizzare l’opinione pubblica, i politici e gli stessi settori creativi sui profondi cambiamenti che l’IA avrebbe comportato. Tuttavia, questi avvertimenti sono stati spesso ignorati, percepiti come distanti o non pertinenti alla propria realtà.
L’attuale “risveglio” di fronte alle implicazioni dell’IA è, per molti versi, tardivo.
L’integrazione dell’IA è ormai pervasiva. Il film “The Brutalist” è stato oggetto di critiche per un presunto uso eccessivo di intelligenza artificiale nel montaggio, segnalando come questa tecnologia stia penetrando anche nei processi creativi cinematografici.
Si è già osservato come l’IA possa sostituire figure professionali, come nel caso degli “anchor man” virtuali nel giornalismo.
La stessa ChatGPT è diventata uno strumento quotidiano per un’ampia gamma di utenti, dagli studenti che la usano per redigere compiti e traduzioni, ai professionisti che vi ricorrono per assistenza nel lavoro.
L’impatto socio-economico di questa rivoluzione tecnologica era stato anticipato da figure come Yuval Noah Harari, il quale, già anni fa, paventava il rischio della creazione di una “classe inutile”, ovvero di una vasta porzione di popolazione la cui manodopera e le cui competenze sarebbero state rese obsolete dall’automazione e dall’IA, privandola di una funzione sociale ed economica.
Questa non era una profezia distopica campata in aria, ma una lucida analisi basata sull’osservazione delle tendenze tecnologiche e delle loro potenziali conseguenze.
Chi, nel corso degli anni, ha cercato di mettere in guardia su questi scenari, ha spesso sperimentato la frustrazione di scontrarsi con un muro di indifferenza o scetticismo.
Assumere il ruolo della Cassandra mitologica, colei che prevede sventure ma non viene creduta, è un’esperienza comune per chi tenta di anticipare i problemi e stimolare una riflessione critica.
Si osserva una dinamica ricorrente: che si tratti di dibattiti sul genere, sull’impatto di specifiche tecnologie, sul “wokismo”, sulla “cancel culture” o, appunto, sull’intelligenza artificiale, lo schema tende a ripetersi.
In una fase iniziale, chi solleva preoccupazioni e invita alla cautela viene spesso etichettato come allarmista o luddisti, talvolta sbeffeggiato.
Solo quando le problematiche si manifestano in modo concreto e diffuso, l’attenzione collettiva si attiva, ma spesso in una fase in cui le possibilità di intervento e di orientamento del cambiamento sono già significativamente ridotte.
In questo panorama, emergono anche figure che, pur avendo contribuito a spianare la strada all’adozione di nuove tecnologie, si trovano oggi a esprimerne criticamente gli eccessi. Damon Albarn, ad esempio, che con i Gorillaz ha sperimentato pionieristicamente l’uso di ologrammi e tecnologie avanzate negli spettacoli dal vivo, ora si unisce al coro di chi critica l’impatto dell’IA.
Questa apparente contraddizione sottolinea la complessità del rapporto tra innovazione, adozione tecnologica e consapevolezza critica delle sue implicazioni a lungo termine.
La sfida attuale risiede nel passare da una reazione tardiva e spesso emergenziale a una riflessione proattiva e a una governance consapevole dello sviluppo tecnologico, per evitare che il progresso, anziché servire l’umanità, finisca per generare nuove e più profonde forme di alienazione e disuguaglianza.
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