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Su Fabbrica della Comunicazione, la rubrica Il Punto di Vista è a cura del giornalista e scrittore Massimo – Max – Del Papa che commenta con Beatrice Silenzi – i fatti del momento.

L’etere, spesso veicolo di notizie effimere e dibattiti superficiali, a volte si fa cassa di risonanza per dolori profondi e riflessioni scomode. Oggi lo spazio si apre con un omaggio accorato e amaro a Gianfranco Butinar, artista della voce e della caricatura scomparso prematuramente. Ma tutto si trasforma in un’analisi spietata dei meccanismi che governano non solo il mondo dello spettacolo, ma l’intera società italiana, fino a toccare le corde più sensibili della gestione sanitaria e delle dinamiche politiche globali.

“Vorrei cominciare però la trasmissione con un ricordo di dispiacere,” esordisce Del Papa una voce carica di emozione. “Il mio ricordo va a Gianfranco Butinar.” Non un semplice imitatore, viene precisato con forza, ma “un artista della caricatura”.
Questa distinzione è cruciale: Butinar non si limitava alla perfezione mimetica, già di per sé rara.
Possedeva quella dote, riservata a pochissimi, di “prendere un personaggio, stravolgerlo, farlo arrivare al parossismo senza essere volgare, senza essere banale”.

Un talento purissimo, capace di cogliere l’essenza grottesca e rivelatrice di una figura pubblica, elevando l’imitazione a critica sociale, a satira pungente.
Per chi lo conosceva e lo apprezzava, Butinar era “un piccolo personaggio di culto”.
Eppure, nonostante questo talento cristallino, “non è mai arrivato alla ribalta definitiva”.

“Aveva due difetti: era il più bravo di tutti nel suo campo ed era il meno raccomandato di tutti. Non aveva sponde.” Una condanna che risuona familiare in molti ambiti del nostro paese, dove il merito spesso soccombe alle logiche clientelari e alle appartenenze.
Butinar, pur avendo collaborato con la Gialappa’s Band – un nome che evoca una stagione televisiva di grande intelligenza satirica – è rimasto “sempre ai margini”.

La sua scomparsa, a soli 51 anni, “nel sonno, la notte scorsa, sano, senza nessuna patologia nota”, aggiunge un carico di sgomento e, inevitabilmente, solleva interrogativi che gli interlocutori scelgono di non esplicitare del tutto, per “evitarsi le solite rotture di scatole” e la “ridda dei commenti” orientati.
Ma il sottinteso è palpabile, un’ombra che si allunga sulle “tante persone che lasciano troppo presto questa vita”. È una perdita secca, quella di un artista “mai completamente premiato per come meritava”. Un epilogo che invita a trarre “le sue conseguenze”, un amaro j’accuse verso un sistema che non riconosce e non valorizza i suoi talenti più puri.

Dalla Morte di un Artista alla Crisi Sanitaria: Un Filo Rosso di Sospetti e Accuse

Si scivola verso temi più vasti e controversi, in particolare la gestione della sanità e le conseguenze di decisioni prese ai massimi livelli. Si sottolinea, con toni durissimi, come “dal governo sono stati messi e rimessi ai vertici della burocrazia sanitaria, delle istituzioni sanitarie, i più accesi fanatici e fondamentalisti e talebani propagatori di quella cosa che sappiamo”. Un riferimento neanche troppo velato alle politiche e alle figure chiave della gestione pandemica, accusate di aver causato “tante conseguenze”.

Viene citato un presunto parallelo con l’America, dove “tolgono l’obbligo per le donne incinte perché sono venute fuori le statistiche dei produttori”: “un aborto su quattro, un neonato morto, un feto abortito su quattro per causa di…”.
Un’affermazione gravissima, attribuita a dati ufficiali dei produttori stessi, che contrasterebbe nettamente con la situazione italiana, dove, secondo gli autori, chi ancora nega problematiche (“non è successo niente, le donne incinte non debbono sottrarsi”) verrebbe premiato e mantenuto in posizioni di potere.

Questa “continuità su tutto” è vista come una prova dell’inutilità di illudersi su un cambiamento reale, nonostante le “risultanze scientifiche” e le dinamiche internazionali (“l’effetto domino che arriva di qua, arriva dall’America”).
Non ci sarebbe una vera “differenza politica di azione”.

La politica, in questa visione, diventa una “faccenda elitaria, un circolo… estremamente blindato”. Un “blocco” coeso al di là delle apparenti divisioni, dove non ci si dovrebbe stupire di trovare figure eterogenee – “Casarini a cena con Vannacci, che a cena con Ilaria Salis, a cena con Tajani” – perché, in fondo, apparterrebbero allo stesso sistema. Il fatto che un governo definito “di destra, Meloni, così conservi, mantenga e premi ai massimi livelli istituzioni sanitarie quelli che dicevano ‘avanti così, tarli ne dovranno morire'” è considerato “l’unico caso al mondo”.
Un’anomalia che si lega, nel discorso, al dolore per le persone che “a 50 anni così, senza una spiegazione”, se ne vanno.

Il Referendum: Farsa Democratica o Strumento di Potere?

L’attenzione si sposta poi sull’attualità politica del fine settimana, con un imminente referendum. La descrizione è caustica: si parla di “Jobs Act”, ma vi si sarebbe “infilato dentro anche un’altra questione che non è che piace tantissimo”, una tattica per “far passare una cosa che magari può essere legittima” mescolandola con altre meno popolari.
L’ironia si fa tagliente quando si commenta che a parlare di lavoro sono “la gente che non ha mai lavorato in vita sua”, citando “Landini, la Schlein”, figure che, secondo questa prospettiva, non avrebbero mai sperimentato il lavoro vero.

Il referendum, in particolare quello sulla “cittadinanza”, viene liquidato come una questione di “soldi”. Si cita il Cardinale Zuppi – “a noi non ci interessano i soldi, ci interessano i poveri” – interpretando la frase con sarcasmo: “si è confuso, ha invertito un po’”.
I poveri, in questa lettura, sarebbero il “core business” per certi ambienti, inclusa una parte della Chiesa, e l’arrivo di “altri 2-3 milioni” di persone da sistemare si tradurrebbe in un flusso di denaro (rette, accoglienza, ecc.).

Ma a cosa servirebbe realmente questo referendum, al di là dei soldi? “Serve alla sinistra per compattarsi, per contarsi”. Una sinistra eterogenea, composta da “CARC, Askatasuna, Centri Sociali, il partito di Ilaria Salis, PD e Forza Italia (che chiama Fedez), PD, Forza Italia, 5 Stelle”.
Un blocco che includerebbe, in questa visione quasi surreale, figure come “Askatasuna, CARC, Ilaria Salis, Casarini, Zuppi, Tajani, Gasparri e Conte”. Se il referendum passasse e si “imbarcassero altri 2 o 3 milioni”, sarebbero “tanti soldi” e, politicamente, la narrazione sarebbe: “Abbiamo vinto il referendum, la Meloni va a casa”.

Questa potenziale conseguenza viene analizzata con cinismo: la caduta del governo Meloni sarebbe invocata sulla base di uno “schiaffo al governo, le politiche reazionarie fasciste”, con richieste di “più migranti, più Europa”.
Si scatenerebbero “tutti i giornali pagati dall’Unione Europea” (citando un presunto miliardo in 10 anni per finanziare ANSA e altri media per fare propaganda pro-UE e “a quei prodotti di cui parlavamo all’inizio”).
La magistratura, poi, interverrebbe “accusandola di qualunque cosa: olocausti, terremoti, riscaldamenti globali”. Il Capo dello Stato, “che vigila”, scioglierebbe le camere.
Una dinamica della “democrazia all’italiana, che è molto particolare”, dove la politica si farebbe così.

Le Porte Girevoli del Potere: Politica, Affari e Oligarchie

Il discorso si allarga a una critica radicale della classe politica e delle sue motivazioni. Si ricorda un politico (il riferimento implicito è a Matteo Renzi) che disse: “Se noi non vinciamo il referendum, ce ne andiamo a casa”, per poi, invece, “andare a casa degli arabi”.
Questo episodio diventa emblematico di un modus operandi: figure pubbliche che, terminata un’esperienza politica o professionale, trovano lucrative collocazioni in paesi come l’Arabia Saudita, dove i “diritti umani sono particolarmente… lascia fa’”.

Una scelta di “totale indifferenza” verso valori fondamentali come i diritti delle donne, delle minoranze, degli omosessuali, in cambio di “una paccata di soldi”.
La riflessione tocca una corda personale: “Io saprei resistere? Ma mica lo so… le tentazioni, uno resiste a quelle piccole, ma quelle grosse…”.
Questo è il “percorso della democrazia e della politica”: figure “a scadenza” che sanno di esserlo.

La politica, quindi, non sarebbe più una questione di potere intrinseco, ma “un’attività transitoria”, un “trampolino” per gli affari, il “big business”, che oggi si fa “in Cina, negli sceiccati, coi sauditi”.
Le implicazioni legate al terrorismo, ai suoi finanziatori, alle “triangolazioni per cui il mio nemico in guerra può essere il mio migliore amico negli affari”, sono tutte considerazioni che, pur complesse, non cambierebbero la sostanza.
Un allenatore che “ha perso tutto” può andare in Arabia per “20 o 30 milioni”, tornare dopo un anno e ricominciare. E così, si prevede, farà anche la Meloni, “esattamente come Renzi, come gli altri prima e dopo di lei”.

Questo meccanismo di “sliding doors” rende la politica indistinguibile dalla finanza e dagli affari. L’esempio si estende all’America: Trump, “un industriale, un oligarca”, ha riempito il suo governo di “uomini della finanza”.
Il recente scontro tra Trump e Musk, dopo essere stati “stracci e camicia”, con accuse reciproche di essere “delinquenti, ladro, maniaco, ingrato”, è visto come un teatrino. Le loro mosse, come i dazi, alimenterebbero “colossali, immani, gigantette speculazioni in borsa”, per poi lasciare tutto com’è. La politica, dunque, “in funzione della finanza”. Oggi, “è impossibile distinguere il finanziere dal businessman, dal politico, da quello che controlla l’informazione. È un coacervo, è tutto dentro tutto”. I politici lo sanno, e questo è il loro “mestiere”: oggi qui, domani dagli arabi, poi di nuovo in politica.

Questo scenario desolante si riflette, inevitabilmente, nel mondo dell’informazione, che semplicemente, “non c’è più”. “Ci rendiamo conto che il mondo non sta bene?” in questo contesto, figure come Malgioglio o Fabrizio Corona sembrano, paradossalmente, “le persone più equilibrate”.

Proprio Fabrizio Corona diventa un caso emblematico: “Le tante rivelazioni che ha fatto Fabrizio Corona, condite di un ego mostruoso, le ha fatte solo lui”. Il caso Garlasco, con le sue intercettazioni di “matti che parlavano da soli”, da cui si vorrebbe “risalire a un colpevole”, è citato come esempio di una deriva irrazionale. “Io non lo so se è stata la pandemia, se sono stati quelle mele avvelenate, se è stato il virus di laboratorio, se è stata la cattività, però a me pare che ci sia un mondo che non ragiona più, dove lo pigli lo pigli”.

L’apice del surreale, secondo gli autori, si raggiunge con le dichiarazioni di un “direttore di Fanpage”, che avrebbe definito il decreto sicurezza del governo “un regime fascista perché questo governo vuole perseguire i delinquenti”.
L’assurdità di tale affermazione è sottolineata con sarcasmo: “Cosa deve perseguire? O non persegui i delinquenti, oppure devi perseguire gli innocenti”.

Un grido di frustrazione, un atto d’accusa verso un “sistema” percepito come corrotto, autoreferenziale e profondamente ingiusto. È un quadro a tinte fosche, quello dipinto, dove il merito è soffocato, la verità manipolata e il futuro incerto.

Un’eco amara che risuona ben oltre la perdita di un singolo, pur talentuoso, artista, per interrogare lo stato di salute di un’intera società.
La domanda implicita, lancinante, che aleggia su tutto il discorso è: in un mondo così, c’è ancora spazio per la vera arte, per il merito autentico, per una speranza di cambiamento reale?

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