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Su Fabbrica della Comunicazione, la rubrica della domenica mattina a cura di Beatrice Silenzi – giornalista e direttore responsabile – con Enrica Perucchietti si chiama L’Altra Domenica.
A quasi sei anni dalla sua controversa morte in una cella di massima sicurezza a Manhattan, l’FBI e il Dipartimento di Giustizia statunitense hanno calato il sipario, archiviando il caso con una conclusione che Perucchietti definisce “incredibile” ma, al tempo stesso, dolorosamente prevedibile.
L’intervista non si è limitata a una semplice cronaca degli eventi, ma si è trasformata in una profonda dissezione dei meccanismi di potere, degli insabbiamenti sistemici e delle reti di protezione che avvolgono l’élite globale.
Quella che emerge non è la fine di una storia, ma la conferma di un sistema in cui la giustizia è un lusso che i potenti non possono permettersi di concedere quando la verità minaccia di far crollare l’intero edificio.
Dall’ipotesi di Epstein come risorsa dei servizi segreti al ruolo ambiguo di figure come Donald Trump, fino ai parallelismi con lo scandalo di Puff Daddy, l’analisi offerta dalle due interlocutrici traccia una mappa sconcertante di un mondo occulto che continua a operare impunemente, protetto da una spessa coltre di omertà e complicità istituzionale.
Il punto di partenza dell’analisi è la notizia stessa: il Dipartimento di Giustizia ha chiuso le indagini, riaffermando che la morte di Jeffrey Epstein, avvenuta il 10 agosto 2019, è stata un suicidio. “Incredibile per modo di dire,” afferma, “perché sono anni che continuo a dire che non ci sarà mai giustizia su questo caso.” La sua non è una rassegnazione fatalista, ma una lucida constatazione basata su anni di studio delle dinamiche di potere.
In base all’analisi di Michael Baden, il celebre patologo forense assunto dalla famiglia di Epstein, si erano evidenziate fratture all’osso ioide e alla cartilagine tiroidea del collo, lesioni più compatibili con uno strangolamento che con un’impiccagione. A ciò si aggiunge il precedente tentativo di suicidio, che lo stesso Epstein aveva descritto ai suoi avvocati come un’aggressione da parte di un altro detenuto.
L’archiviazione del caso non risponde a nessuna di queste domande. Al contrario, le seppellisce sotto una pietra tombale burocratica, sperando che l’oblio faccia il resto.
Abbracciando la conclusione del suicidio, le istituzioni hanno scelto la via più semplice e disarmante, come la descrive la saggista, per chiudere una voragine che minacciava di inghiottire troppi segreti. La narrativa ufficiale, quindi, diventa essa stessa uno strumento di occultamento, un velo gettato su una verità troppo scomoda per essere rivelata.
Per comprendere la portata dell’insabbiamento, è necessario spostare il focus dalla figura del pedofilo a quella dell’agente dei servizi segreti. Questa è la chiave di volta che spiega non solo la sua impunità decennale, ma anche la necessità assoluta di sigillare la sua storia per sempre.
Perucchietti è categorica: Epstein non era un semplice criminale sessuale, ma un “doppiogiochista, triplogiochista” al servizio di potenti agenzie di intelligence, in particolare la CIA e il Mossad israeliano.
La sua famigerata “isola dei pedofili”, Little St. James, e le sue lussuose residenze non erano solo teatri di abusi, ma sofisticate operazioni di “honeypot” (trappole di miele). Lo scopo era attirare politici, imprenditori, scienziati e reali, filmare le loro perversioni e utilizzare il materiale per ricattarli, trasformandoli in marionette al servizio di interessi geopolitici. Epstein, in questo schema, era il maestro di cerimonie di un vasto network di raccolta informazioni e ricatto.
Questa prospettiva cambia radicalmente la lettura del caso. La famosa “lista dei clienti” non è solo un elenco di pervertiti, ma un archivio di individui compromessi e controllabili a livello globale. La sua pubblicazione integrale non scatenerebbe solo uno scandalo morale, ma una crisi geopolitica senza precedenti, svelando le leve occulte che muovono le decisioni di leader mondiali. La sua morte era una necessità strategica e la chiusura del caso una mossa obbligata per la sicurezza nazionale di più di un Paese.
Ghislaine Maxwell, la sua complice condannata, rimane in carcere, ma funge da parafulmine.
Uno degli aspetti più frustranti del caso Epstein, è l’inafferrabilità della cosiddetta “lista dei clienti”. Sebbene frammenti di nomi siano emersi, la lista completa rimane un’entità mitologica. L’FBI, chiudendo le indagini, implicitamente nega l’esistenza di prove sufficienti per incriminare altre figure di spicco.
In questo contesto, la morte di testimoni chiave assume un’aura sinistra. L’intervista ricorda il caso di Virginia Giuffre, una delle principali accusatrici di Epstein e del Principe Andrea, morta a metà aprile in circostanze definite misteriose.
Giuffre era una “super testimone”, una delle poche persone che avrebbero potuto collegare direttamente molti potenti ai crimini di Epstein. La sua scomparsa, come quella di altre figure minori legate al caso, contribuisce a erodere ulteriormente la possibilità di arrivare a una verità processuale completa.
Il messaggio è agghiacciante: chi sa troppo è in pericolo. La chiusura del caso non serve solo a proteggere i colpevoli, ma anche a scoraggiare futuri testimoni.
È un monito a chiunque pensi di poter sfidare un sistema così radicato e potente. La giustizia, in questo scenario, non è solo cieca, ma viene attivamente accecata.
La conversazione si sposta poi su due figure emblematiche e ambigue: Donald Trump ed Elon Musk. Entrambi hanno avuto un ruolo peculiare nella narrazione pubblica del caso Epstein.
Subito dopo la morte di Epstein, aveva ritwittato post che insinuavano un coinvolgimento dei Clinton, alimentando la teoria dell’omicidio. Tuttavia, è stata proprio la sua amministrazione, tramite il suo Dipartimento di Giustizia, a supervisionare e infine avallare la versione ufficiale del suicidio.
Questo crea un paradosso: Trump era un critico impotente del “deep state” o un attore consapevole che utilizzava la retorica cospirazionista per i propri fini, pur garantendo che il sistema rimanesse intatto? La sua posizione rimane un enigma, sospesa tra l’accusa e la complicità istituzionale.
Il caso Epstein non è un evento isolato, quello di Sean “Puff Daddy” Combs è emblematico. Accusato di abusi, violenze e traffico sessuale, la sua parabola ricorda quella di Epstein. Anche qui, si parla di festini estremi, ricatti, video compromettenti e una rete di potenti complici.
Combs potrebbe essere condannato per alcuni reati, diventando il “capro espiatorio” perfetto, ma l’indagine si fermerà a lui.
La chiusura del caso Epstein, quindi, non è solo la fine di una storia, ma il rafforzamento di un muro di omertà che protegge un intero sistema basato sullo sfruttamento, il ricatto e l’abuso di potere, un sistema che si estende dalle isole caraibiche ai set cinematografici di Hollywood, fino ai corridoi del potere di Washington.
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