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Su Fabbrica della Comunicazione, la rubrica Il Punto di Vista è a cura del giornalista e scrittore Massimo – Max – Del Papa che commenta con Beatrice Silenzi – i fatti del momento.
Nel dibattito contemporaneo, il caso Garlasco ha assunto i tratti di un rituale mediatico. Non si tratta solo di un’indagine giudiziaria complessa e stratificata, ma di una vera e propria saga nazionale, un’ossessione ciclica che riemerge nei palinsesti televisivi come una moderna leggenda nera.
L’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto nel 2007, è diventato il fulcro di un universo narrativo che travalica i confini della cronaca per abbracciare suggestioni esoteriche, costruzioni paranoiche, derive psicosociali e una rappresentazione macabra della provincia italiana.
La provincia come universo oscuro
La provincia italiana, nella rappresentazione di Massimo del Papa, è molto distante dalla visione pasoliniana della genuinità contadina e della purezza perduta delle lucciole.
Non è il luogo idilliaco in cui si preservano le tradizioni, ma piuttosto un universo crudele, spietato, dove l’immaginario collettivo si contamina di rituali oscuri, messe nere, sesso, mistero e morte.
È un microcosmo che si presta, più di ogni altra ambientazione, alla narrazione gotica del delitto, perché è chiuso, sospettoso, e perché permette la proliferazione di sottotrame ambigue.
In questo contesto, Garlasco diventa la nostra “Twin Peaks”, una cittadina apparentemente ordinaria che nasconde però il germe del Male.
Ogni elemento del caso viene amplificato da questo filtro culturale: l’esoterismo non è più solo un dettaglio marginale ma un canale narrativo, utile a spiegare ciò che la logica investigativa non riesce a chiarire.
Esoterismo straccione e sessualità morbosa
L’elemento esoterico entra in gioco ogni volta che la narrazione rischia di perdere mordente.
È una carta sempreverde nei giochi dell’informazione spettacolarizzata. Le “messe nere”, il “satanismo”, i “riti occulti” non sono mai confermati da prove concrete, ma servono a tenere viva l’attenzione del pubblico.
Sono suggestioni che, nella loro inconsistenza, garantiscono un effetto psicologico potente perché fanno leva sull’angoscia ancestrale del Male invisibile.
Non si tratta qui dell’esoterismo alto, quello degli alchimisti e delle tradizioni esoteriche europee, ma di un esoterismo “straccione”, pornografico, posticcio, pensato per la fruizione televisiva.
A ciò si aggiunge una declinazione morbosa della sessualità: perversi, cugine seducenti, relazioni ambigue.
Il caso Garlasco diventa così un contenitore torbido dove tutto è lecito: accuse infamanti, sospetti infondati, gossip travestiti da ipotesi investigative.
Il declino dell’informazione e le marchette
Massimo del Papa analizza in profondità la mutazione genetica del giornalismo italiano, soprattutto nell’ambito della cronaca nera.
Il giornalista non è più testimone dei fatti, ma protagonista dello spettacolo. Non racconta più ciò che accade, ma modella la realtà in funzione del palinsesto e degli share.
L’informazione è stata cannibalizzata dalla “fabbrica delle marchette”, dove ogni giorno bisogna trovare un nuovo pretesto per tenere viva la narrazione, anche a costo di sacrificare il rigore, la deontologia, la verità.
In questa logica, la pista esoterica, la mano insanguinata sul muro, le “gemelle K”, l’avvocata glamour e l’ex frate trappista diventano personaggi di una telenovela giudiziaria.
Ogni dettaglio è enfatizzato, isolato, decontestualizzato e reso spettacolare. Il risultato è un’epopea morbosa in cui si cerca più l’effetto che il senso.
La giustizia come fiction
Un altro aspetto inquietante del racconto di Del Papa è la riflessione sullo stato della giustizia in Italia. Non solo si assiste a una spettacolarizzazione del processo, ma anche a una sua degenerazione linguistica.
Gli atti giudiziari sono diventati un guazzabuglio tecnico incomprensibile, buono solo per essere travisato nei talk show. E quando la tecnica non basta più, si ricorre al mistero, alla magia, al simbolismo.
L’avvocato “di Sempio”, che dice di essersi “sognato” un omicidio rituale in un’abbazia, in realtà sta mandando messaggi — non troppo criptati — a qualcuno.
In un mondo normale, sarebbe catalogato come visionario. In questo contesto, diventa un interprete, un sacerdote laico che officia il rito mediatico.
Lo stesso accade per l’avvocata social, per le cugine-influencer, per gli opinionisti che si alternano in studio.
Tutti partecipano a un grande spettacolo in cui la verità processuale è solo uno degli elementi — spesso il meno rilevante.
Il marketing del crimine
Un tempo, spiega Del Papa, il giornalismo si nutriva sì di titoli ad effetto, ma sempre nel rispetto dei fatti. Oggi, invece, il titolone è il fatto.
Il marketing ha preso il sopravvento: tutto deve colpire, tutto deve emozionare, indignare, spaventare. Non importa che sia vero. Basta che sia utile a vendere, a far parlare, a far condividere.
La cronaca giudiziaria è ormai costruita come una fiction: si cerca il cattivo, si inventa il colpo di scena, si organizza la suspense.
E se i fatti non collaborano, si cambiano i fatti. Il pubblico, intanto, viene addestrato a consumare il crimine come forma d’intrattenimento, senza più distinguere tra realtà e rappresentazione.
Nonostante la globalizzazione abbia uniformato stili di vita, gusti, linguaggi, sotto la superficie rimane un’Italia profondamente arcaica.
Una nazione che è stata sì catapultata nella postmodernità, ma che conserva nel proprio immaginario collettivo le scorie di un passato preindustriale, rurale, superstizioso.
Del Papa individua uno spartiacque simbolico nel Mondiale del 1982. Lì, dice, si chiude un’epoca. Dopo quella festa popolare, l’Italia ha progressivamente perso il contatto con la propria autenticità.
La gastronomia è stata travolta dai format televisivi, la cultura popolare sostituita dai meme e dalle mode globali. Eppure, alcune pulsioni restano.
Una di queste è proprio quella che si manifesta nei casi di cronaca nera spettacolarizzata: un bisogno antico di riconoscere il Male, di nominarlo, di dargli una forma.
Tra paranoia e verità
In questo clima, è impossibile distinguere tra realtà e costruzione mediatica. L’accusa di omicidio può nascere da una mano insanguinata che poi si scopre non essere tale. Una testimonianza può essere vera o frutto di “sogni”.
E il sospettato può essere chiunque abbia avuto un contatto, anche indiretto, con il luogo del delitto, anche decenni prima. Ogni gesto, ogni traccia può ritorcersi contro di te, come in un incubo kafkiano.
La paranoia è diventata sistemica. E forse proprio per questo funziona così bene nei format televisivi: perché incarna una paura condivisa, quella di essere fagocitati da una macchina narrativa che ha bisogno di colpevoli, ma non necessariamente di verità.
Il caso Garlasco, nella sua metamorfosi da evento giudiziario a saga nazionale, mostra con lucidità lo stato attuale del rapporto tra informazione, giustizia e società.
La provincia italiana si conferma scenario ideale per narrazioni oscure e suggestioni esoteriche, perché rappresenta il rimosso collettivo di un Paese che vuole dimenticare la propria arcaicità ma non riesce a farlo.
Il giornalismo, intanto, abdica al suo ruolo critico per diventare parte del racconto. Non più strumento di comprensione, ma attore del grande spettacolo del crimine.
In questo teatro dell’assurdo, l’esoterismo, la tecnologia forense, i social, le passioni morbose e il marketing convivono in un unico magma indistinto.
E il cittadino? È spettatore e possibile protagonista, bersaglio potenziale di una macchina che non cerca giustizia ma attenzione.
Una mano sul muro può valere un processo. Una testimonianza vaga può scatenare un’ondata di sospetti. In questo scenario, nessuno è al sicuro.
Non perché il Male sia ovunque, ma perché ovunque c’è la necessità di raccontarlo, di venderlo, di trasformarlo in fiction.
Questo è il vero esoterismo dell’Italia di oggi: non quello dei riti occulti, ma quello della manipolazione collettiva del reale.
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