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La rubrica Il Punto di Vista è a cura dello scrittore e giornalista Max del Papa e Beatrice Silenzi, direttore responsabile di Fabbrica della Comunicazione.
LA TRUFFA È SISTEMATICA E LA GIUSTIZIA CHIMERA: L’Italia degli impuniti.
Viviamo in un’epoca in cui le truffe, specialmente quelle ai danni degli anziani, non sono più episodi isolati di cronaca, ma la cartina di tornasole di un sistema sociale e giudiziario profondamente malato.
La vicenda di Eugenio, un signore di Bologna che ha visto suo padre spegnersi in una spirale di depressione dopo essere stato raggirato, è emblematica di una realtà drammatica.
Il truffatore, già noto alla giustizia per reati simili, rappresenta il simbolo di un’impunità dilagante che avvelena la società e mina alla base la fiducia nelle istituzioni.
Il problema, come emerge da un’analisi critica, ha radici profonde e si articola su più livelli.
Da un lato, assistiamo a un crollo del controllo sociale e del ritegno morale.
In passato, pur in contesti di maggiore povertà, esisteva una sorta di condanna collettiva che fungeva da deterrente.
Oggi, chi inganna un anziano fino a causarne, indirettamente, la morte, non prova più vergogna, né la società gliela impone. Si è persa quella barriera etica che, pur con tutti i suoi limiti, poneva un freno alla disonestà.
Dall’altro lato, e forse in modo ancora più grave, si erge il muro di una magistratura che appare sempre più come il contrario della giustizia.
Non è solo una questione di mancanza di risorse, come spesso si sente dire.
Il vero problema è una profonda politicizzazione e ideologizzazione che porta a giustificare certi reati in nome di presunte “disuguaglianze sociali”. Se un ladro o un truffatore viene percepito come una vittima del “capitalismo”, la sua colpa viene di fatto annullata.
Questo approccio garantista verso i delinquenti si scontra con una realtà in cui le vittime vengono lasciate sole, senza risarcimento e senza giustizia.
Un esempio concreto di questa disfunzione è la storia di un club di auto storiche, defraudato di 20.000 euro tramite una firma contraffatta.
Dopo cinque anni, il truffatore, un professionista del raggiro, è stato condannato, ma i soldi non sono mai stati restituiti.
Sono rimasti congelati in un limbo burocratico, lasciando l’associazione in ginocchio. Se una tale ingiustizia può colpire un’organizzazione strutturata, è facile immaginare le conseguenze devastanti su un anziano che vive della sua pensione.
Questa percezione di impunità si estende anche al rapporto tra cittadini e forze dell’ordine.
Spesso, chi si reca a sporgere denuncia per una truffa si scontra con un atteggiamento di rassegnazione, se non di palese disinteresse.
Le denunce contro ignoti finiscono per essere archiviate senza che nessuno paghi per le proprie azioni, alimentando un circolo vizioso in cui le vittime, scoraggiate, rinunciano a cercare giustizia.
Il quadro si fa ancora più desolante quando si osserva come questo sistema malato si intrecci con il mondo dello spettacolo e della politica, creando una casta di privilegiati che sembra vivere al di sopra della legge.
Il caso di Ilaria Salis, eletta al Parlamento Europeo nonostante diverse condanne, è sintomatico. Una volta ottenuta l’immunità, ha ripreso ad attaccare le istituzioni, protetta dal suo nuovo status. Allo stesso modo, la solidarietà quasi obbligatoria espressa nei confronti di figure come il giornalista Sigfrido Ranucci, anche da parte dei suoi avversari politici, rivela una logica di casta: ci si attacca pubblicamente, ma ci si protegge a vicenda perché si è “dentro il giro”.
Questo meccanismo perverso riabilita persino personaggi come Vanna Marchi e la figlia, che dopo aver scontato pene per truffa, vengono riaccolte nei salotti televisivi.
È lo stesso sistema che permette a figure come Fabrizio Corona, con un cumulo di condanne, di reinventarsi come giornalista e opinionista, usando il ricatto come strumento di potere. Se parli, minacciando di svelare i segreti di politici, magistrati e giornalisti, il sistema ti protegge per proteggere se stesso.
Il recente scandalo della “gintoneria” milanese è l’ennesima prova di come criminalità, politica e mondo mediatico siano intimamente connessi. Il titolare, dopo aver patteggiato una pena irrisoria, ha risarcito le vittime con bottiglie di champagne, una beffa che grida vendetta. La morale che ne deriva è devastante: l’unica cosa che conta è fare soldi, non importa come.
Le leggi sono per i “coglioni”, come diceva la stessa Marchi, per coloro che rigano dritto e che, proprio per questo, finiscono per essere le vittime designate di un sistema che premia i furbi.
In questa corsa al “Vello d’Oro”, dove il successo si misura solo in termini economici e di visibilità, si inserisce anche la parabola dell’avvocato protagonista di un celebre caso di cronaca nera, passato dalle aule di tribunale alla potenziale partecipazione al Grande Fratello.
Mondi apparentemente distanti – la giustizia, il crimine, l’intrattenimento – si fondono in un unico calderone dove l’etica e la morale non hanno più alcun peso.
La democrazia italiana sembra così trasformata in un sistema spietato con i deboli e garantista con i potenti e i delinquenti.
Mentre si discute di “body shaming” e si impone una solidarietà di facciata, si calpesta la dignità delle persone oneste. Il figlio dell’anziano truffato che cerca giustizia si trova di fronte a un muro invalicabile, perché lui è “fuori” dal sistema, non ha segreti da usare come arma di ricatto.
La sua tragedia è invisibile per un mondo che celebra solo la vanità e il denaro.
E finché la morale dominante sarà questa, per gli onesti non ci sarà né tutela né speranza.
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