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Su Fabbrica della Comunicazione, la rubrica Viaggio nella Storia Contemporanea è a cura del giornalista e scrittore Franco Fracassi – già co-autore di una collana di 12 volumi dal titolo “Nei Secoli Brevi” – che commenta con Beatrice Silenzi fatti e personaggi degli ultimi 120 anni.

Il World Economic Forum (WEF), noto per il suo annuale incontro a Davos, si presenta come un centro nevralgico in cui convergono alcune delle figure più influenti del pianeta: miliardari, leader politici, scienziati, accademici e celebrità.
Ma cosa rappresenta davvero questa istituzione? Qual è la sua origine, la sua ideologia fondativa e la portata del suo potere?
Un recente libro, Le mani sul mondo, scritto da Franco Fracassi in collaborazione con Carmen Tortora, affronta queste domande con un’analisi critica e dettagliata che ne evidenzia i contorni oscuri.

Il WEF non è semplicemente un think tank o un foro economico: è un’élite, un vero e proprio club esclusivo, composto da circa 1600 tra le persone più ricche e potenti del mondo.
Al suo interno si muovono non solo i grandi capitalisti globali, ma anche coloro che possono influenzare il destino del pianeta: capi di Stato, banchieri, intellettuali, giornalisti, celebrità e funzionari di organismi sovranazionali.

Questo carattere elitario è già un primo elemento rivelatore: non si tratta di un’assemblea democratica, bensì di un’arena in cui il potere si concentra e si autorigenera.
In tale contesto, il WEF agisce come un crocevia in cui si plasmano non solo idee, ma strategie globali, visioni del futuro, modelli di società.

Comprendere il WEF significa anche indagare le sue origini. Secondo gli autori, il Forum non nasce spontaneamente come espressione di un bisogno collettivo, ma è il prodotto di un disegno ideologico ben preciso.
Tra i suoi ispiratori vi sono nomi come Henry Kissinger, David Rockefeller e perfino la CIA, nella figura di Allen Dulles, uno dei padri dell’intelligence americana.

L’ideologia fondativa è quella tecnocratica: una visione del mondo in cui il sapere scientifico e tecnologico è elevato a unica fonte di legittimazione del potere. In questa prospettiva, esisterebbe un’élite di individui più “colti” e competenti, dunque più legittimati a governare il pianeta.
La tecnocrazia, quindi, è l’idea che chi conosce la scienza (e la tecnologia) meglio degli altri debba decidere per tutti.

Questa visione ha trovato piena espressione durante la pandemia da Covid-19, con l’imposizione di decisioni sanitarie vincolanti, l’adozione del Green Pass, la restrizione delle libertà individuali in nome di un presunto bene collettivo.
Quello fu un esempio vivido di come un approccio tecnocratico possa trasformarsi in uno strumento di controllo sociale.

L’ideologia tecnocratica si esprime in maniera ancora più pervasiva nella promozione delle smart cities, città intelligenti e iperconnesse dove ogni attività è tracciata, regolata, ottimizzata.
Apparentemente moderne e funzionali, queste città rischiano di diventare gabbie dorate in cui ogni comportamento umano è monitorato in tempo reale da algoritmi e sistemi automatizzati.

Tutto questo è parte di un progetto che il WEF porta avanti da anni: trasformare le città e le società in ambienti iper-regolamentati e governati da intelligenze artificiali, che dovrebbero garantire ordine, sicurezza e sostenibilità.
Ma a quale prezzo? Qual è il costo, in termini di libertà individuale, privacy, autodeterminazione?

Uno degli strumenti più potenti del WEF è il suo programma Young Global Leaders, una sorta di accademia internazionale dove si formano i futuri decisori del mondo.
Politici, imprenditori, intellettuali e perfino attivisti selezionati per la loro brillantezza vengono educati secondo i valori e le priorità del Forum.

Questa strategia consente di “produrre” leader già orientati verso una certa visione del mondo. Emmanuel Macron è uno degli esempi più emblematici: emerso politicamente in Francia come outsider, in realtà è frutto di un percorso di formazione e promozione che affonda le radici in questa struttura globale.

Attraverso questi programmi, il WEF si garantisce continuità ideologica e potere politico duraturo.
I leader formati a Davos sono portatori di un’agenda già definita, che una volta al governo diventa politica pubblica.

Il WEF non si limita a esercitare un’influenza morale o simbolica. I suoi documenti, proposte e iniziative vengono spesso riprese dalle principali istituzioni internazionali: Nazioni Unite, Unione Europea, Organizzazione Mondiale della Sanità.
È il caso, ad esempio, dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, in larga parte modellata sugli obiettivi e le priorità del Forum.

Anche le politiche europee contro la disinformazione, come il Digital Services Act, trovano eco nei lavori del WEF. Lo stesso vale per il dibattito sull’intelligenza artificiale, i cambiamenti climatici, la “quarta rivoluzione industriale”.
Tutti temi centrali nei lavori di Klaus Schwab, fondatore e guida spirituale del Forum.

Il Grande Reset è uno dei concetti più discussi e controversi usciti dal WEF. Formalizzato in un libro scritto da Klaus Schwab, rappresenta un progetto globale di ristrutturazione economica, sociale e culturale post-pandemica.
L’idea è quella di “ricostruire meglio”, eliminando le disuguaglianze, riformando il capitalismo, investendo nella tecnologia e nella sostenibilità.

Ma dietro questa visione utopica si cela un progetto di centralizzazione del potere, in cui le scelte fondamentali vengono delegate a un’élite globale.
Il Grande Reset non è semplicemente un piano economico, ma un paradigma politico-ideologico che ridefinisce il rapporto tra individuo e collettività, tra Stato e cittadino, tra libertà e sicurezza.

Una delle figure più influenti nell’ambiente del WEF è lo storico e filosofo israeliano Yuval Noah Harari.
Le sue analisi sul futuro dell’umanità, l’intelligenza artificiale, la fine del libero arbitrio e la manipolazione biologica degli esseri umani sono ampiamente discusse a Davos.

Harari è una mente brillante, capace di letture acute della società contemporanea. Le sue conclusioni spesso sfociano in visioni distopiche: un’umanità divisa tra “potenziati” e “scartati”, tra coloro che avranno accesso alla tecnologia e al potere, e chi invece verrà escluso.

Secondo Harari, l’essere umano è destinato a essere superato da intelligenze artificiali più efficienti e razionali. Il suo pensiero, sebbene radicale, è oggi al centro del dibattito strategico sul futuro dell’umanità, e viene utilizzato dal WEF come base teorica per giustificare molte delle sue iniziative.

Figura centrale e carismatica, Klaus Schwab rappresenta l’incarnazione dell’ideologia del WEF. Nato in una famiglia industriale svizzero-tedesca, ha sviluppato una visione elitista e tecnocratica del mondo, dove il progresso è possibile solo attraverso l’ordine, la pianificazione e il controllo.

Attraverso i suoi libri, Schwab ha sistematizzato un pensiero coerente che unisce economia, tecnologia e geopolitica in una prospettiva globale. Il suo progetto non è solo teorico: è concreto, radicato in accordi internazionali, alleanze strategiche e iniziative operative.

La sua figura è stata paragonata a quella di Maria Antonietta per la distanza che lo separa dalla realtà quotidiana delle persone comuni. Il suo approccio snob e la convinzione di sapere cosa sia meglio per l’umanità intera sollevano inquietudini profonde.

Un altro elemento centrale nell’analisi di Fracassi è il ruolo della CIA, l’intelligence americana, nella nascita e sviluppo del WEF. In particolare, Allen Dulles, uno dei fondatori della CIA, viene descritto come uno degli ispiratori ideologici dell’organizzazione.

Dulles era un uomo legato a una visione del mondo elitaria, nazionalista, eugenetica. Secondo gli autori, non ha solo contribuito alla creazione della CIA per difendere gli Stati Uniti, ma per proteggere un’ideologia di dominio. Questa stessa ideologia si sarebbe poi incarnata nel WEF, che non rappresenta gli interessi nazionali, ma quelli di un’élite transnazionale.

Infine, il WEF si avvale della società dello spettacolo per rafforzare la propria influenza. Celebrità, influencer, testimonial vengono cooptati come strumenti di diffusione del consenso.
La partecipazione di attori, sportivi e musicisti agli incontri di Davos non è casuale: serve a legittimare le idee del Forum presso l’opinione pubblica.

Viviamo in una società del consenso, dove l’immagine conta più del contenuto. E in questa dinamica, chi controlla il brand controlla anche il messaggio. Il WEF, consapevole di ciò, ha trasformato la politica in marketing e il potere in spettacolo.

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