di GIORGIO PANDINI

Prank Video e violenza

Quella che doveva essere una tranquilla corsa all’alba si è trasformata in un episodio che scuote la città e la comunità intera di Bari e non solo. Un uomo di 62 anni raggiunto da un uovo lanciato da un’auto in corsa mentre correva lungo il lungomare, è stato ferito ad un occhio.

A seguito dell’impatto, dopo aver barcollato, l’uomo si è accasciato al suolo.
I compagni di allenamento, preoccupati, hanno allertato immediatamente il Pronto intervento e il podista è stato trasportato in ospedale, dove i medici gli hanno riscontrato un edema retinico.
Dopo alcune ore di osservazione è stato dimesso, con la raccomandazione di sottoporsi a controlli specialistici.

Secondo le prime ricostruzioni, sembra che un secondo veicolo abbia seguito la scena, filmando il lancio con un telefono cellulare, dettaglio che rafforza l’ipotesi di un’azione premeditata, destinata a diventare contenuto per i social.
Dietro questo gesto si cela la spasmodica ricerca di notorietà?
Di visualizzazioni facili fatte per acquisire follower?
Stiamo forse assistendo all’ennesimo fenomeno che si sviluppa attraverso la Rete?

Una cosa è certa: i Prank video – filmati che mettono in scena scherzi e aggressioni ai danni di passanti ignari – stanno diventando una costante.
Nati negli anni Duemila come semplici burle: finti spaventi, candid camera o gag inoffensive, hanno assunto progressivamente una piega sempre più aggressiva, complice la concorrenza tra content creator sui social. 

L’obiettivo non è più strappare un sorriso, ma provocare sorpresa, indignazione o shock: emozioni che generano click, condivisioni, e di conseguenza guadagni e visibilità.
Si basano sull’effetto sorpresa: la vittima diventa involontariamente parte di uno spettacolo che non ha scelto di vivere, spesso subendo umiliazioni o rischi concreti. 

Oggi YouTube, TikTok e Instagram ospitano migliaia di contenuti che immortalano colpi bassi, scherzi pesanti, finte minacce ed alcuni video mostrano vere e proprie aggressioni a sconosciuti con spintoni, lanci di oggetti o intimidazioni verbali.
Il confine tra intrattenimento e violenza diventa sempre più labile, soprattutto quando la vittima non ha dato alcun consenso ad essere ripresa.

Uno studio dell’Università di Melbourne ha analizzato nel dettaglio i meccanismi che rendono questi contenuti così diffusi.
Alla base c’è la capacità di stimolare emozioni immediate e viscerali come stupore, disgusto, risate nervose, indignazione. 

I social premiano l’engagement

Più un video è scioccante, maggiori sono le possibilità di scalare gli algoritmi e raggiungere milioni di utenti.
Questo sistema perverso alimenta una competizione senza freni, in cui ogni creator cerca di superare i limiti imposti da chi lo ha preceduto.
In una spirale che spinge verso l’estremo, si arriva a gesti potenzialmente pericolosi, come il lancio di oggetti, inseguimenti o finti sequestri.

Poi vi sono le challenge sui social che hanno invece una natura diversa: invitano a partecipare a una prova con regole comuni e, nella maggior parte dei casi, con il consenso di chi aderisce.
Ma attenzione, perché possono essere anche molto pericolose. 

Le sfide possono assumere la veste di prove di coraggio o di gare divertenti che diventano virali, che richiamano i più giovani, estremamente ricettivi a questa tendenza.

Nella Ice Bucket i ragazzi erano invitati a versarsi in testa secchi di acqua gelata, tuttavia ci sono anche challenge estremamente pericolose: quando si tratta di mangiare cannella o masticare capsule per la lavatrice, o respirare sostanze tossiche.

La Planking Challenge spinge i partecipanti a fotografarsi in luoghi insoliti in posizione distesa: più rischioso è il luogo, più attenzione riceve il video.
La Bird Box Challenge prevede che si viva nella quotidianità bendati. 
Con la Black-Out Challenge ci si deve strangolare fino allo svenimento, ma indubbiamente la più pericolosa è la Blue Whale Challenge in cui  ai ragazzi viene chiesto di completare una serie di compiti.

Il primo consiste nell’incidere una balena blu sul braccio ed ogni giorno si susseguono altri compiti, fino ad arrivare all’ultimo, il cinquantesimo: il suicidio.
Chiunque si rifiuti e voglia andarsene, viene minacciato con l’uccisione di familiari o amici.
Si sa che il gioco ha già provocato diverse vittime.

Ed il caso di Bari, lungi dall’essere una “ragazzata” evidenzia come questi scherzi possano sfociare in aggressioni con conseguenze mediche, ed inoltre, essere colpiti o umiliati davanti a un pubblico, reale o virtuale che sia, può lasciare un segno psicologico, generando ansia e perdita di fiducia nello spazio pubblico.

Le piattaforme stesse faticano a controllare un flusso infinito di contenuti che veicolano messaggi di prevaricazione.
Uno dei rischi più insidiosi è l’effetto imitativo: molti, attratti dalla promessa di popolarità, ripetono azioni sempre più audaci, sottovalutandone i pericoli e diversi casi di cronaca hanno mostrato come scherzi finiti male possano provocare conseguenze devastanti.

I social media diventano così un palcoscenico dove la violenza è mascherata da gioco. Ovviamente c’è anche da considerare la responsabilità del pubblico che clicca, commenta e condivide alimentando lo stesso meccanismo che spinge gli autori ad esagerare. 

La popolarità virtuale non può diventare alibi e è necessaria consapevolezza per definire i confini dell’intrattenimento: la libertà di vivere all’aperto senza timore è una responsabilità che riguarda tutti: istituzioni, piattaforme digitali, utenti e cittadini.