di GIORGIO PANDINI
I più attenti osservatori non si sono stupiti della notizia che rimbalza in queste ore dalla TV ai quotidiani: Israele attacca l’Iran.
Eppure, da mesi si rincorrevano avvisaglie ed allarmi attraverso le dichiarazioni del leader israeliano Netanyahu, del suo omologo statunitense Trump e, prima ancora, del suo predecessore Biden, tutti pronti a mettere in guardia il mondo riguardo quel preoccupante progresso iraniano del suo programma nucleare.
Da molti anni, l’Iran ha iniziato un piano basato sull’arricchimento dell’uranio a scopi militari, al fine di produrre ordigni atomici come deterrente nei confronti di Stati Uniti e Israele che, tuttavia, hanno interesse a mantenere il loro status di unici detentori di queste tipologie di armamenti. In particolare Israele, nazione schiacciata tra altri Paesi arabi che non fanno mistero di volerne l’eliminazione.
Come leggere questi sviluppi?
La premessa da fare è che la situazione dell’area è, da secoli, fortemente instabile. Oggi Israele rappresenta politicamente la zona di confine tra mondo occidentale e mondo arabo: un lembo di terra – difeso con il coltello tra i denti – schiacciato tra Libano (finanziato da Teheran), Siria, Giordania ed Egitto, oltre ai territori palestinesi che fino all’attacco del 7 ottobre hanno mantenuto un costante clima di guerriglia quotidiana.
Fin dalla sua creazione ed in seguito all’immigrazione massiccia di esuli israeliani, post persecuzioni naziste, gli Stati Uniti finanziano Israele, non solo attraverso un continuo e consistente flusso di denaro, ma anche fornendo armi e tecnologia militare per “blindare” questo avamposto, in un territorio ricco di materie prime.
L’area è significativa perché al centro della produzione di petrolio controllata dai Paesi confinanti, diretti competitor degli americani nella produzione di questa preziosissima risorsa.
In questo contesto, a seguito dell’attacco terroristico della palestinese Hamas, il leader israeliano – al tempo in crisi per problemi politici e guai giudiziari in cui era invischiato – ha preso la palla al balzo per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica, rimanendo alla guida del Paese e ricompattando la popolazione contro il solito nemico nazionale contro cui reagire.
La risposta di Netanyahu, tuttavia, si è trasformata in una sanguinosa rappresaglia con l’obiettivo di cancellare la Palestina dalla carta geografica, con eccessi che hanno messo in imbarazzo anche lo storico alleato americano, oltre ad alienarsi l’appoggio degli stati occidentali che da sempre sostengono Israele.
Anche l’ex presidente Biden mal tollerava il comportamento di Netanyahu e il contenuto delle telefonate tra i due era particolarmente aggressivo.
Con l’avvento di Trump si è segnalata una riconciliazione tra le parti, mentre in campo militare si è aperto un altro fronte di guerra contro Hezbollah, omologo libanese di Hamas, finanziato dall’Iran e considerato dagli USA uno “stato canaglia”.
Uno dei tanti Stati da cui “difendersi”, in base alla visione statunitense le cui peculiarità, in questo caso, sono: regime integralista teocratico, in aperta avversione verso il mondo occidentale, in procinto di terminare un programma di armamento nucleare con ordigni atomici.
E veniamo ad oggi.
Dopo il fallimento di timidi tentativi diplomatici trumpiani per avviare un dialogo con Teheran, si sono concretizzate le condizioni per un attacco militare diretto da parte di Israele, longa manus degli Stati Uniti, nei confronti del regime iraniano.
Un attacco mirato rivolto ai siti di arricchimento dell’uranio e verso la capitale, per eliminare gli scienziati alla guida del progetto e i militari, anche con operazioni del Mossad che è estremamente efficiente in questo campo.
Ora, com’è logico supporre, si attende la risposta dell’Iran, che questa volta si presumerebbe differente da un precedente finto attacco con i droni, ampiamente annunciato, anche se al momento altri droni sono stati lanciati contro Irsaele ed abbattuti.
La diplomazia occidentale si è messa in moto per tentare di placare gli animi ed evitare quella che si prospetta come un’escalation dagli esiti imprevedibili.
I politologi sostengono che sarà l’occasione per testare le possibilità militari di Teheran di cui non si sa molto, ma soprattutto sarà un test per capire le intenzioni del leader Ali Khamenei.
La situazione è in divenire, è destinata a durare per settimane, come ha detto Netanyahu.
Difficile pensare che si possa risolvere tutto in breve tempo, specialmente considerando i protagonisti della vicenda ed il loro temperamento, oltre che gli interessi politici ed economici in gioco.
Gli USA, che ovviamente sono stati i primi a chiamarsi fuori da qualsiasi responsabilità in merito all’attacco, non hanno mai fatto mistero di avere delle mire sullo sfruttamento delle risorse di cui è ricco il territorio dell’Iran: materie prime sulle quali è impossibile mettere le mani sin dall’avvento del regime alla fine degli anni ’70.
Mi piace ricordare Camus quando sosteneva che “quando scoppia una guerra, la gente dice: “Non durerà, è cosa troppo stupida” e non vi è dubbio che lo sia davvero, ma questo non le impedisce di “durare”, anzi.
La speranza è che, contrariamente alle premesse, la situazione possa rientrare o quantomeno rallentare e che qualcuno non voglia oltrepassare quel limite invalicabile, in maniera irreversibile.