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Su Fabbrica della Comunicazione, la rubrica della domenica mattina a cura di Beatrice Silenzi – giornalista e direttore responsabile – con Enrica Perucchietti si chiama L’Altra Domenica.
Un’ideologia che per anni è sembrata inarrestabile, un monolite culturale capace di plasmare il linguaggio, l’arte e il dibattito pubblico, oggi mostra segni di cedimento.
I dogmi del pensiero “woke”, un tempo imposti con la perentorietà di verità assolute, iniziano a vacillare sotto il peso delle loro stesse contraddizioni e di una crescente insofferenza che emerge persino dai luoghi più insospettabili.
Il lapsus della verità: “Donne”, non “Persone Incinte” alla BBC
Il primo e forse più clamoroso segnale di questa incrinatura proviene dal cuore di una delle istituzioni mediatiche più progressiste al mondo: la BBC. Durante un notiziario, la giornalista Maryam Moshiri (identificata nel video come Croxall, ma si tratta di un’altra giornalista BBC protagonista di un caso simile), leggendo un testo dal teleprompter, si è imbattuta nella locuzione “persone incinte”. Con un gesto tanto piccolo quanto potente, si è fermata, ha alzato gli occhi al cielo in un impeto di quasi esasperazione e si è corretta: “Donne, diciamo donne”.
Questo episodio, apparentemente minore, è in realtà un terremoto simbolico. La formula “persone incinte” è uno dei pilastri del linguaggio inclusivo promosso dall’ideologia woke, pensato per includere uomini trans e persone non binarie che possono portare a termine una gravidanza. Per una vasta parte della popolazione, questa espressione rappresenta una cancellazione della specificità biologica e storica della donna.
La correzione della giornalista, in diretta nazionale, non è stata solo una preferenza lessicale, ma un atto di resistenza semantica. È stata l’affermazione che la realtà biologica, in certi contesti, non può e non deve essere sacrificata sull’altare di un’inclusività che rischia di diventare astratta e disconnessa dal senso comune.
Questo non è un evento isolato, ma la punta di un iceberg. L’insistenza su un linguaggio che sfida la biologia e la logica sta generando un rigetto diffuso. La roccaforte, apparentemente inespugnabile, inizia a mostrare crepe dall’interno, non per un attacco esterno, ma per l’implosione delle sue stesse premesse.
La Parodia del Biologico: Il Ciclo Mestruale Maschile e i Limiti dell’Autopercezione
Se il caso della BBC rappresenta una crepa nel muro del linguaggio, il secondo caso analizzato scava fino alle fondamenta biologiche, sfociando in quella che può essere descritta solo come una parodia. Durante un evento del Pride, un video diventato virale mostra due ragazzi, adornati con ironici cornetti da unicorno, dichiarare candidamente di avere il ciclo mestruale.
Non in senso metaforico, ma sostenendo di vivere “giorni no” che corrispondono a un ciclo ormonale, con tanto di dolori e sbalzi d’umore.
Questa affermazione ha suscitato ilarità e sconcerto, ma merita un’analisi più attenta. È l’estremizzazione di un principio cardine del pensiero woke: l’identità autopercepita ha la precedenza sulla realtà biologica.
Se un uomo può definirsi donna, perché non può anche reclamare per sé un’esperienza biologica prettamente femminile? La discussione si è spinta a verificare le basi scientifiche di tale affermazione.
Esiste una teoria, avanzata dall’endocrinologo slovacco Peter Celec, che ipotizza cicli ormonali maschili, ma si tratta di una ricerca controversa e mai replicata su larga scala dalla comunità scientifica. Ciò che è scientificamente provato sono le fluttuazioni diurne del testosterone, un fenomeno ben diverso da un ciclo mensile.
L’episodio dei “ragazzi con il ciclo” è significativo perché espone il punto di rottura tra l’empatia verso le identità altrui e l’accettazione di affermazioni che negano la scienza fondamentale.
Se si accetta che un uomo possa avere il ciclo, il passo successivo logico è che possa anche rimanere incinto.
È qui che il discorso cessa di essere una battaglia per i diritti e diventa, agli occhi di molti, un’assurdità. Il fatto che questa discussione si svolga tra persone che si presentano come unicorni aggiunge un livello di auto-parodia che, involontariamente, ne indebolisce la credibilità. È la dimostrazione di come un’ideologia, spinta ai suoi estremi logici, possa collassare nel ridicolo, fornendo munizioni ai suoi detrattori e creando imbarazzo tra i suoi stessi sostenitori moderati.
Il Corsetto della Discordia: Marco Mengoni e la Trasgressione come Prodotto di Marketing
Il terzo e ultimo caso ci porta in Italia e riguarda una delle figure più popolari della musica contemporanea, Marco Mengoni. Durante i suoi concerti, il cantante, noto per un fisico scultoreo e un’immagine tradizionalmente mascolina, ha iniziato a indossare corsetti, capi storicamente associati all’abbigliamento femminile.
La reazione del pubblico e dei media ha immediatamente sollevato un dilemma: se non apprezzi questa scelta estetica, sei omofobo? O è legittimo criticarla come un’operazione calcolata e inautentica?
Da un lato, ci sono le icone del passato: David Bowie, Boy George, Grace Jones, e in Italia Renato Zero. Questi artisti non “indossavano” una maschera di trasgressione; erano la trasgressione.
La loro fluidità di genere, la loro estetica androgina, non era un accessorio da sfoggiare sul palco per poi riporre nell’armadio. Era l’espressione autentica e sofferta della loro identità artistica e personale, un atto di rottura con una società rigida e bigotta. La loro provocazione aveva un costo sociale, ma era radicata in un progetto artistico potente.
Dall’altro lato, c’è la “provocazione 2.0” di artisti come Mengoni o Achille Lauro. Secondo Perucchietti, in questi casi non assistiamo a una vera trasgressione, ma alla sua messa in scena.
È una performance calcolata, un prodotto di marketing studiato a tavolino per generare dibattito, polarizzare l’opinione pubblica e, in ultima analisi, vendere.
Il corsetto su un uomo dal fisico virile non è più un atto che sfida le convenzioni, perché quelle convenzioni sono già state abbattute decenni fa.
Diventa, invece, un “costume”, un elemento che attira l’attenzione mediatica e posiziona l’artista all’interno di un discorso culturale “rilevante” senza che debba necessariamente esserci un contenuto artistico altrettanto forte a sostenerlo.
La vera provocazione, oggi, sarebbe l’opposto: salire su un palco in jeans e maglietta e affidarsi unicamente al proprio talento. In un’epoca satura di eccessi visivi e polemiche costruite, la semplicità diventerebbe l’atto più rivoluzionario.
Questa analisi si estende anche al fenomeno della “body positivity”.
La conversazione cita il contrasto tra un’artista come Alison Moyet, la cui possente stazza non è mai stata il fulcro della sua arte (incentrata sulla sua voce straordinaria), e la retorica di alcune influencer moderne che hanno costruito un brand sulla propria obesità.
La successiva ondata di dimagrimenti radicali, spesso grazie a farmaci come l’Ozempic, ha svelato l’ipocrisia di fondo: anche in questo caso, la “body positivity” rischia di essere un prodotto di marketing, una “fuffa” da abbandonare non appena si presenta un’alternativa più conveniente. Si enfatizza una condizione, che rimane una patologia medica, trasformandola in un vessillo ideologico, per poi smentirla nei fatti.
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