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La rubrica L’Altra Domenica è a cura dello scrittrice e giornalista Enrica Perucchietti e Beatrice Silenzi, direttore responsabile di Fabbrica della Comunicazione.
Trump, Libertà e il Paradosso dell’Odio Online: Riflessioni su una Società Divisa
Il dibattito sulla libertà di espressione è antico quanto la democrazia stessa, ma nell’era digitale ha assunto connotati inediti e spesso preoccupanti.
L’ascesa di figure politiche come Donald Trump ha riacceso i riflettori su questioni fondamentali riguardanti i limiti della libertà individuale e il ruolo dei media e dei social network nel plasmare l’opinione pubblica.
L’analogia tra Trump e Catone il Censore, seppur provocatoria, solleva un punto cruciale: chi decide cosa è lecito dire e cosa no?
E quando la tutela della libertà di espressione si scontra con la repressione del dissenso, dove si rompe il corto circuito?
Trump e il Primo Emendamento: Un Rapporto Complicato
L’ex presidente Donald Trump ha spesso mostrato una relazione ambigua con il Primo Emendamento della Costituzione americana, che garantisce la libertà di parola.
La percezione di molti è che la sua concezione di libertà di espressione sia selettiva: valida finché si allinea al suo pensiero, ma pronta a essere limitata o persino soppressa quando si discosta.
Minacce di chiusura di show televisivi, pressioni per licenziare comici critici, o la messa al bando di giornalisti e media non allineati, sono solo alcuni degli episodi che hanno fatto emergere un clima di censura preventiva e di “purga” delle voci divergenti.
Questa dinamica, se da un lato può essere vista come una mossa politica funzionale al mantenimento del potere, dall’altro rappresenta una soppressione etica, sociale e civile dei diritti fondamentali.
L’ipocrisia di chi si batte per la libertà di pensiero salvo poi ricadere nelle stesse logiche censorie è un segnale preoccupante di una deriva autoritaria che non dovrebbe essere accettata.
Molti sostenitori di Trump, anche in Italia, hanno visto nel suo operato un argine contro l’ideologia “woke” e la “cancel culture”, e un tentativo di ridimensionare lo strapotere delle “Big Pharma” o di altre potenze mediatiche. Innegabilmente, su alcuni fronti, la sua presidenza ha innescato discussioni e infranto dogmi consolidati.
L’oggettività impone di riconoscere anche i segnali di una potenziale deriva autoritaria, di criminalizzazione del dissenso e di silenziamento delle voci scomode. Se si professa di sostenere la libertà di espressione, questo principio dovrebbe essere applicato sempre, non solo quando fa comodo.
La Polarizzazione degli Stati Uniti e la Guerra dei Conti
Gli Stati Uniti sono un paese sempre più polarizzato, dove la contrapposizione tra fazioni politiche ha raggiunto livelli allarmanti.
Si passa da un’accusa a George Soros di finanziare iniziative per silenziare Trump, a un Trump che, tornato al potere, cerca di etichettare Antifa come organizzazione terroristica e di incriminare Soros.
Questa è una guerra di conti che si svolge sotto i riflettori delle telecamere, alimentando le “tifoserie” e esasperando il clima di odio.
Il caso di Charlie Kirk, pur tragico, è emblematico di questa deriva. La commemorazione della sua morte è diventata un terreno di scontro, dove l’odio si è manifestato sui social in forme violente e inaccettabili.
La vedova criticata per il suo contegno, il messaggio “troppo cristiano”: ogni dettaglio diventa pretesto per una giudizio sommario e una condanna senza appello.
L’Odio sui Social: Quando l’Impulso Prevale sulla Riflessione
Il fenomeno dell’odio online è un aspetto sempre più inquietante della nostra società. I social media, pur offrendo opportunità di connessione e condivisione, sono spesso diventati megafoni per la violenza verbale, l’insulto e la denigrazione.
Sembra che non ci sia più un filtro tra l’impulso neurale e la digitazione di commenti cattivi, nefandi, atrocità che un tempo non avrebbero mai trovato espressione pubblica.
Questo non è solo un problema strutturale dei social, progettati per creare “bolle di filtraggio” e polarizzare l’opinione pubblica, ma è anche un effetto collaterale di una società che per anni si è ammantata di buonismo e politicamente corretto, nascondendo sotto il tappeto violenza e odio che ora riemergono con forza.
La “sciatteria” e la “superficialità” con cui le persone si informano, spesso attraverso blog o fonti non verificate, si uniscono a questa cattiveria, creando un mix esplosivo.
Il risultato è una “furia di cancellazione del diverso”: chi non la pensa come noi, chi non si comporta come ci si aspetta, non ha licenza di esistere nel nostro spazio vitale e deve essere attaccato, umiliato, o addirittura “cancellato”.
La facilità con cui si vomita odio online è preoccupante, specialmente per gli adolescenti.
La “banalità del male” si manifesta in insulti e atrocità che spesso non sono neanche frutto di una riflessione, ma di un impulso momentaneo. Giudizi etici, sociali, civili e persino fisici (“non mi piace la tua pettinatura”, “hai una voce sgradevole”) vengono espressi con una cattiveria disarmante.
È un paradosso in una società che si batte contro il “body shaming” e per l’accettazione, ma poi è pronta a giudicare e condannare ogni minima deviazione dall’ideale.
Questo bisogno atavico di giudicare gli altri, di esprimere cattiveria non richiesta, è un meccanismo che innesca una spirale di odio e violenza che non porta a nulla di costruttivo.
La memoria di persone decedute viene infangata, vengono attribuite frasi mai dette, e si fanno distinzioni etiche aberranti, come paragonare e giustificare l’omicidio di una persona rispetto a un’altra.
Se fossimo faccia a faccia in piazza, saremmo così categorici e cattivi? Probabilmente no.
L’anonimato e la distanza offerte dai social media hanno sdoganato una violenza verbale che prima era contenuta, magari mascherata da ipocrisia, ma almeno non diffusa con questa virulenza.
È fondamentale fermarsi a riflettere su queste dinamiche. La polarizzazione non solo mina la coesione sociale, ma mette a rischio i principi stessi della libertà di espressione, trasformandola in un’arma a doppio taglio.
Dobbiamo chiederci chi decide i criteri per la “graduatoria” di accettabilità delle persone e delle opinioni, e riconoscere che la soppressione del dissenso, da qualsiasi parte provenga, è sempre un passo indietro.
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