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Su Fabbrica della Comunicazione, la rubrica Habemus Papam, il mercoledì, è a cura del giornalista e scrittore Massimo – Max – Del Papa che commenta con Beatrice Silenzi – i fatti del momento.
Inauguriamo un nuovo appuntamento con Max Del Papa, ricordando anche il suo canale youtube omonimo e la rubrica “La Parola Del Papa”
Un’analisi impietosa del panorama informativo e sociale contemporaneo emerge da una discussione critica che tocca nervi scoperti dell’attualità italiana.
Al centro del dibattito, la percezione distorta della realtà veicolata da certi meccanismi mediatici, le reazioni scomposte di una parte del pubblico e le derive etiche e politiche che ne conseguono.
La riflessione prende le mosse da una precisazione necessaria riguardo a precedenti critiche sull’uso dell’esoterismo nel contesto di cronache nere, come il caso di Garlasco.
Non si intendeva attaccare l’esoterismo dei Templari, dei Massoni, di Cagliostro o Fulcanelli, bensì una sua versione “da paccottiglia”, un esoterismo televisivo e superficiale, spesso invocato dai media per aggiungere un alone di mistero e mantenere alta l’attenzione su vicende altrimenti già drammatiche.
La critica era rivolta a quei direttori di giornale che, per “tenere su” un caso come Garlasco, non esitano a “buttarci dentro le magia nera, l’esoterismo”, snaturando la complessità dei fatti in nome dell’audience.
Questa tendenza alla semplificazione e alla spettacolarizzazione del dolore si manifesta con particolare virulenza in occasione di tragici fatti di cronaca.
Si è discusso, ad esempio, del caso di una giovane quattordicenne uccisa a pietrate, un atto barbarico che riporta a un’era preistorica, “al Neandertal”.
Di fronte a un simile orrore, l’attenzione si sposta sulla reazione di una parte del sistema informativo: la corsa a raccogliere dichiarazioni, a spettacolarizzare il lutto, a trasformare le vittime e i loro familiari in personaggi mediatici.
Viene descritta la figura del “direttore di giornale, dell’informazione, di testata, caposervizio” che, di fronte a una tragedia, ordina ai suoi giornalisti di “andare a sentire cosa dice il padre dell’assassino, cosa dice la madre della vittima”.
Questi operatori dell’informazione, secondo l’analisi, diventano “più merde, più mostri” degli stessi perpetratori dei crimini, poiché strumentalizzano il dolore per fini di share o di vendite.
L’ironia e il sarcasmo, in questo contesto, diventano quasi un meccanismo di difesa per chi osserva e denuncia tali dinamiche, per non soccombere alla disperazione.
Un esempio emblematico di questa deriva è rappresentato dalla vicenda di un diciannovenne che uccide a pietrate una ragazzina, sfondandole la testa.
Il padre dell’assassino, presentatosi in tuta, minimizza l’accaduto definendolo una “disgrazia”, giustificando il figlio con l’argomentazione che “o guaglione era innamorato” e sottolineando le difficoltà del vivere in certi contesti, come a Napoli.
Parallelamente, la madre della vittima, dopo un iniziale strazio, fa il giro delle televisioni e arriva a promuovere una panineria, con la figlia ancora da seppellire.
Questi comportamenti, definiti “innaturali”, vengono normalizzati da un sistema mediatico che li amplifica e li rende quotidiani. Non si tratta, secondo la critica, di semplice stupidità o aberrazione da parte dei protagonisti, ma di un calcolo, seppur “becero, primordiale, ma lucido”: trasformare la disgrazia in un’opportunità di visibilità o guadagno.
Questo schema si ripete: si cita il caso della “nonna del libro”, o della madre di un giovane musicista vittima di una faida di camorra, che dopo la tragedia si dichiara disponibile a un impegno politico se chiamata da figure come Giorgia Meloni.
La logica sottesa è che la visibilità ottenuta tramite la tragedia possa tradursi in consenso, in voti.
E la politica, da parte sua, appare pronta a intercettare queste figure, perché “questo c’ha il figlio assassino, questa c’ha la figlia sfondata, portano voti”.
La critica più feroce è dunque riservata alla politica e all’informazione, viste come un’entità unica e corresponsabile di questo degrado.
Nel caso specifico della ragazzina uccisa a Napoli, si è dibattuto sulla narrazione che tende a suggerire una sorta di “colpa a metà” della vittima.
Un’affermazione categoricamente respinta: una quattordicenne, con la maturità presumibile di una bambina di otto o dieci anni, non “se l’è cercata”.
È una vittima in tutti i sensi. Si è richiamata l’osservazione del politico Vincenzo De Luca, il quale, affermando che una dodicenne non può essere data in promessa sposa a un diciottenne, è stato lapidato mediaticamente, pur avendo espresso un concetto considerato banale e di buon senso.
La vicenda, analizzata “freddamente e cinicamente”, presenta una bambina di dodici anni data in promessa sposa a un diciassettenne, che due anni dopo la uccide a colpi di pietra in un tugurio.
Uno scenario che fa domandare se ci si trovi “a Napoli o in Afghanistan, a Kabul”.
A questo quadro preistorico si aggiunge la spettacolarizzazione mediatica dei protagonisti superstiti, con giustificazioni come “è stato un incidente, era innamorato” e la madre che sponsorizza panini.
La bambina, dunque, non “se l’è cercata”, ma “ce l’hanno mandata, gliel’hanno fatta cercare”, poiché una dodicenne non dovrebbe essere avviata a una vita matrimoniale.
I filmati che la ritraggono, magari con atteggiamenti da adulta o con oggetti di marca, sono il frutto di una ricerca morbosa da parte di giornalisti che frugano nelle chat e nei profili social, trasformando una “vittima designata” in un personaggio da analizzare superficialmente.
L’avvocato della madre, nel tentativo di difenderla, sostiene che fosse “fuori di testa” per lo shock, ma questa appare come una giustificazione di comodo.
La riflessione si estende alla mancanza di un limite in questa discesa verso il peggio, con la previsione cupa dell’arrivo dell'”omicidio in diretta”, uno scenario da “Black Mirror”, dove la spettacolarizzazione del crimine raggiungerà il suo apice con la giustificazione da parte del pubblico.
Ogni evento sembra avvicinare a questa prospettiva.
Un altro tema toccato è quello della Festa della Repubblica, descritta come un evento caratterizzato da uno “spreco di retorica” e da una parata di luoghi comuni.
Le celebrazioni ufficiali, con le Frecce Tricolori e il discorso del Presidente Mattarella, vengono contrapposte a una realtà di divisione e ipocrisia.
Si sottolinea come il concetto di “inclusività” della Repubblica, celebrato a parole, si scontri con le liti politiche quotidiane: dalla Presidente del Consiglio Meloni che annuncia di andare a votare per un referendum ma di non ritirare la scheda specifica, provocando indignazione, al discorso di Mattarella che lega la Festa della Repubblica alla festa dell’Unione Europea, sollevando interrogativi su dove risieda effettivamente tale inclusione.
La realtà appare quella di un palcoscenico dove “tutti dicono tutto quello che vogliono”.
Il discorso si sposta poi sul trasformismo politico e sul degrado etico, esemplificati dalla figura di Fedez.
Un esponente di Forza Italia, un giovane “gerarchetto”, ha proposto Fedez per il partito.
Questo accostamento suscita sconcerto, ricordando il passato di Fedez come presunto candidato dei grillini, i suoi selfie con figure come Scanzi, Travaglio e Di Battista, e le dichiarazioni di Travaglio che lo definiva “uno dei pochi che conosce la politica”.
Questa affermazione, si addice più a Travaglio che a Fedez. Si ricorda l’Ambrogino d’Oro conferitogli dal sindaco Sala, e poi le recenti critiche di Fedez a Sala stesso e alla vivibilità di Milano, dimenticando le sue passate “spedizioni punitive” goliardiche.
Il passaggio a Forza Italia, con la critica alla sinistra e a Travaglio definito “affarista”, appare come l’ennesima giravolta di un “trasformista”.
La possibilità di una sua candidatura per Forza Italia non sorprende chi osserva da tempo queste dinamiche, confermando una tendenza all’esagerazione che si rivela, puntualmente, realtà.
Un breve, ma significativo, inciso riguarda il commento sportivo, citando l’ex calciatore Giuseppe Bergomi. Il suo stile di telecronaca, caratterizzato da frasi semplici e ripetitive come “Fabio ha tirato, ha fatto gol, sono più forti”, viene sarcasticamente contrapposto ai successi passati, come la vittoria di un mondiale con giocatori di quella generazione, evidenziando un apparente contrasto tra la semplicità espressiva e la grandezza delle imprese compiute.
Infine, si affronta il caso di un professore che ha rivolto commenti inaccettabili alla figlia della Presidente Meloni, augurandole una sorte tragica, e che in passato aveva espresso simili concetti sui figli di Salvini.
Di fronte alla gravità delle sue affermazioni, la giustificazione addotta è stata quella di essere stato vittima dell’intelligenza artificiale.
Questa scusa viene definita ridicola e vigliacca. Si ipotizza che tale individuo possa trovare una candidatura politica nel “partito della Salis”, descritto non più come il partito di Fratoianni e Bonelli, ma come una “succursale della Schlein” che ha “creato un mostro”.
Il vero problema, tuttavia, non è tanto il “mente catto” o “vigliacco” in sé, quanto la reazione di una parte significativa del pubblico sui social media: molti lo esaltano, lo giustificano, lo comprendono, arrivando a colpevolizzare la stessa Meloni per il fatto di avere una figlia.
Questa serie di osservazioni conduce a una domanda finale, esistenziale e sociale: “Noi che cosa siamo?”.
Non più “esseri umani senzienti”, ma una “società dissociata”, un “consesso che si ostina a definire evoluto, organizzato”.
Una società che, pur disponendo di tecnologie che consentono di “mistificare noi stessi, di reinventare noi stessi, di volare a tutti i livelli”, conserva al suo interno un “Neanderthal” pronto a riemergere.
La domanda su cosa siamo oggi e cosa diventeremo domani mattina rimane aperta, carica di inquietudine.
La facilità con cui si accetta la spettacolarizzazione del dolore, la superficialità del giudizio, l’opportunismo politico e la deresponsabilizzazione individuale attraverso scuse come l’intelligenza artificiale, dipingono un quadro preoccupante della contemporaneità.
L’analisi critica, pur venata di cinismo e sarcasmo, funge da specchio impietoso delle contraddizioni e delle derive di un’epoca che sembra aver smarrito i propri riferimenti etici e la capacità di una riflessione profonda.
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