di GIORGIO PANDINI

Un’opera d’arte, una scultura in bronzo che ritrae una madre mentre nutre il suo bambino, è diventata fulcro di un acceso dibattito a Milano, rivelando le complesse tensioni che attraversano la società contemporanea e il ruolo che l’arte è chiamata a giocare al suo interno.
Si tratta dell’opera “Dal latte materno veniamo” di Vera Omodeo, artista scomparsa nel 2023, la cui creazione è stata donata alla città dai suoi figli.

La commissione comunale preposta alla valutazione delle installazioni artistiche negli spazi pubblici ha negato il permesso di collocare la statua in piazza Duse, nella zona di Porta Venezia.
La motivazione addotta è che l’opera non rappresenterebbe “valori condivisibili da tutti i cittadini e cittadine”. Questa decisione ha immediatamente sollevato un’ondata di proteste, culminata in un flashmob di madri che allattano nella piazza designata per l’installazione.

Lo stesso sindaco di Milano, Giuseppe Sala, ha espresso il suo dissenso, definendo la decisione una “forzatura” e sostenendo che l’opera non urta alcuna sensibilità.
Ha inoltre suggerito una possibile collocazione presso la clinica Mangiagalli, un luogo che, a suo dire, conferirebbe all’opera un significato ancora più profondo in un momento storico caratterizzato da una preoccupante denatalità.
Anche l’assessore alla Cultura, Tommaso Sacchi, ha manifestato perplessità sul diniego, ribadendo che l’opera non appare offensiva e che l’amministrazione non ha alcuna intenzione di sminuire la generosa donazione.

La polemica ha varcato i confini comunali, coinvolgendo anche la Regione Lombardia a guida leghista, che si è detta disponibile a trovare una sistemazione alternativa per la scultura.
L’assessora regionale alla Cultura, Francesca Caruso, ha dichiarato che l’immagine di una donna che allatta è parte integrante della nostra cultura e non può in alcun modo recare offesa, auspicando una riconsiderazione da parte del Comune.
Esponenti di diverse fazioni politiche hanno espresso il loro sconcerto: dalla Lega che ha sottolineato come “una mamma che stringe al petto un bambino non può offendere nessuno”, al PD che ha rimarcato come “la maternità come scelta di amore e libertà è un bene da tutelare e valorizzare”.
La figlia dell’artista, Serena, ha giudicato “surreali” le motivazioni della commissione, evidenziando come in città vi siano solo due sculture dedicate a figure femminili, e questa sia stata realizzata da una donna.

Questo episodio milanese va ben oltre la semplice disputa sulla collocazione di una scultura. Solleva interrogativi profondi sulla capacità dell’arte di farsi portatrice di valori e, al contempo, di mettere in discussione le convenzioni.
Se è vero che l’arte, nel suo dispiegarsi negli spazi pubblici, deve dialogare con la collettività, è altrettanto vero che la sua essenza non è quella di rassicurare o conformarsi, ma di stimolare, a volte persino disturbare.

L’immagine della maternità, un archetipo universale che affonda le radici nella storia dell’umanità e dell’arte stessa, diviene qui oggetto di controversia.
Il “no” alla statua, motivato dalla presunta non condivisibilità dei valori espressi, non può che lasciare un’inquietudine.
Cosa significa, in una società che si proclama aperta e inclusiva, il fatto che la rappresentazione di un atto così primordiale e vitale come l’allattamento possa essere percepita come divisiva?
Forse la vera sfida non è trovare opere che mettano d’accordo tutti, ma imparare a confrontarsi con quelle che rivelano le nostre crepe, i nostri non detti, le nostre paure più recondite.

L’arte, in momenti come questi, non è un balsamo consolatorio. È piuttosto uno specchio impietoso che riflette le nostre contraddizioni, i limiti del nostro dialogo, le resistenze a confrontarsi con ciò che percepiamo come diverso o, paradossalmente, troppo intimo per essere esposto.
L’incapacità di accogliere una tale rappresentazione in uno spazio condiviso, suggerendone la reclusione in ambiti privati o religiosi, tradisce una certa fragilità culturale.
Forse non è l’opera a “non rappresentare valori condivisibili”, ma è la società stessa a mostrare una crepa nella sua capacità di riconoscere e accogliere la piena espressione della condizione umana in tutte le sue sfumature e in questo, l’arte, anche quando rifiutata, compie il suo più profondo e, a volte, doloroso lavoro.