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La rubrica Libero Pensiero – a cura di Beatrice Silenzi giornalista e direttore responsabile – ospita il presidente onorario della Fondazione Carolina, il dottor Paolo Picchio.
CAROLINA PICCHIO VITTIMA DI CYBERBULLISMO
Di cosa stiamo parlando?
Di un fatto accaduto nel 2013 ma che ancora oggi fa storia.
“Le parole fanno più male delle botte” è la frase lasciata in eredità da Carolina a suo padre e la battaglia di Paolo Picchio è più viva che mai, contro il cyberbullismo.
La storia di Carolina è un pugno nello stomaco, una di quelle vicende che lasciano senza fiato e che costringono a una profonda riflessione sul mondo in cui viviamo e, soprattutto, su quello che stiamo lasciando ai nostri figli.
A raccontarla è suo padre, un uomo che ha trasformato il dolore più devastante in una missione di vita: salvare altri giovani dalla violenza subdola e spietata del cyberbullismo.
Carolina era una ragazza di 14 anni piena di vita. Suo padre la descrive come solare, intelligente, empatica e grande sportiva. Aveva vinto da poco i campionati di salto in alto, era alta, bella e con un grande talento nel comprendere gli altri, tanto da sognare di diventare psicologa per aiutare le amiche con i loro problemi di cuore.
Era una leader naturale, una figura positiva che, inevitabilmente, attirava anche invidie e gelosie.
La sua vita si è spezzata la notte del 5 gennaio 2013.
La tragedia è iniziata con un atto di bullismo nato all’interno del suo gruppo di amici a Novara, dove si era da poco trasferita a vivere con il padre.
La gelosia di un ragazzo e la dinamica tossica del “branco” portano il gruppo a volerla “punire” per la sua indipendenza e la sua apertura verso gli altri.
Durante quella serata, Carolina fu indotta a bere, forse con l’aggiunta di sostanze nel suo bicchiere, fino a perdere completamente conoscenza.
Mentre era svenuta, inerme, cinque ragazzi sfogarono su di lei le loro pulsioni, giocando con il suo corpo in esibizioni sessuali mentre un sesto filmava tutto con un cellulare.
L’orrore di quella notte rimase ignoto a Carolina. Al suo risveglio, come racconta il padre, non ricordava assolutamente nulla. “Papà, ero lì a bere con i miei amici e poi mi sono trovata stamattina qua nel letto”, gli disse.
Sconcertati dal fatto che la loro vittima non mostrasse segni di umiliazione, i suoi aguzzini decisero di passare al livello successivo, quello più crudele e definitivo: pubblicare il video di quella violenza sui social network, per mostrare al mondo “chi è Carolina”.
In quel momento, l’aggressione fisica si trasformò in un’esecuzione pubblica digitale.
La sua intimità, la sua reputazione, il suo essere più profondo vennero dati in pasto ai “leoni da tastiera”. Nel giro di pochi minuti, migliaia di insulti la travolsero.
Il suo cervello, come hanno poi confermato neurologi e psicologi al padre, andò in corto circuito. Di fronte al tradimento dei suoi “migliori amici” e alla distruzione della sua immagine, Carolina si sentì persa.
La lettera prima di morire
Scrisse una lettera, un testamento morale rivolto a quei ragazzi:
“Ciao ragazzi, grazie del vostro bullismo, avete fatto un ottimo lavoro. Volevo solo dare un ultimo saluto. Perché questo, il bullismo è tutto qui. Ma non capite che le parole fanno più male delle botte?”.
Alle 3 di notte, Carolina si tolse la vita.
Nel 2013, il termine “cyberbullismo” era un fantasma, un concetto di cui nessuno parlava sui media. Da quel baratro di dolore, però, è iniziata una rinascita.
Paolo ha seguito un processo che ha fatto la storia: per la prima volta in Italia e in Europa, è stato dimostrato che quelle che venivano liquidate come “ragazzate” erano in realtà reati gravissimi: violenza sessuale di gruppo, diffusione di materiale pedopornografico e morte come conseguenza di altro reato.
La Legge contro il cyberbullismo
Ma la vera svolta è arrivata rileggendo le parole di sua figlia: “Spero che adesso sarete tutti più sensibili sulle parole”.
Da lì, l’idea di creare la Fondazione Carolina, per raggiungere i ragazzi e parlare con loro, per evitare che altre vite venissero spezzate.
Ricevono uno smartphone a 10 anni, uno strumento che dà loro il mondo in mano senza regole, in una fase della vita in cui le emozioni esplodono e il bisogno di “esserci” è totalizzante.
“Vanno in default”, spiega Picchio, citando un dato allarmante del Ministero dell’Istruzione: l’anno precedente, le assenze per depressione alle elementari e medie hanno superato quelle per malattia.
La Fondazione Carolina opera su tre fronti
A Milano è nato il “Centro Rete“, un luogo gratuito che offre percorsi di supporto psicologico, sportivo e artistico ai ragazzi in difficoltà e alle loro famiglie, con operatori che vanno anche a domicilio per aiutare i cosiddetti “hikikomori”, giovani che si auto-recludono. Significativamente, il centro si occupa anche del recupero dei bulli, partendo dal presupposto che “nessuno nasce bullo”, ma lo diventa a causa del contesto e di un disagio profondo.
Nessuno alza la mano. Allora spiega, con la pacatezza di chi ha studiato il fenomeno, il potere di un abbraccio: “Abbracciare per 20 secondi una persona a cui si vuole bene fa produrre al nostro cervello l’ossitocina, una molecola che rafforza il sistema immunitario e ci fa sentire bene”.
La storia di Carolina è una ferita insanabile, ma la sua eredità, attraverso la tenacia di suo padre, è un seme di speranza.
Un monito a riscoprire il valore delle parole, il calore di un abbraccio e la responsabilità di essere adulti presenti, prima che sia troppo tardi.
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