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Su Fabbrica della Comunicazione, la rubrica Politicamente è a cura dello scrittore e storico Paolo Borgognone che commenta con Beatrice Silenzi fatti di attualità, politica e geopolitica.

Il panorama politico tedesco, a seguito delle recenti consultazioni elettorali, offre uno spaccato significativo delle trasformazioni in atto non solo in Germania, ma con riflessi importanti per l’intero scenario europeo e, di conseguenza, per l’Italia.
Il partito della CDU, guidato dal candidato cancelliere Alexander Merz, ha ottenuto una vittoria il cui peso appare ridimensionato rispetto al passato.

La Germania, storicamente caratterizzata da un bipartitismo quasi perfetto, o al più un tripartitismo includendo i liberali fino agli anni ’80, vede oggi la tradizionale “grosse Koalition” – composta da CDU/CSU (democristiani e cristiano-sociali bavaresi) e socialdemocratici (SPD) – raccogliere circa il 40% dell’elettorato, un dimezzamento dei consensi rispetto a decenni precedenti quando tale alleanza si contendeva l’80% dei voti.

Questa contrazione ha favorito l’emergere e il consolidamento di forze politiche che intercettano la protesta popolare. Alternative für Deutschland (AfD) si attesta intorno al 20%, un risultato che merita un’analisi approfondita.
Parallelamente, la sinistra radicale, pur beneficiando di una certa attenzione mediatica per essersi proposta come interprete dell’agenda globalista, specialmente sul piano culturale, ha visto il partito di Sahra Wagenknecht, etichettato come “sinistra populista” e anch’esso espressione di protesta, mancare per soli 13.000 voti l’ingresso nel Bundestag, non raggiungendo la soglia del 5%.

Un eventuale riconteggio, qualora avesse portato il partito di Wagenknecht in parlamento, avrebbe complicato ulteriormente la formazione del governo per la CDU, costringendola a cercare l’appoggio non solo dei socialdemocratici ma anche dei Verdi.
Tale scenario avrebbe rappresentato una sfida epocale per i democristiani, data l’agenda dei Verdi su temi come i diritti individuali, radicalmente alternativa alle posizioni, seppur annacquate, della CDU.

Nella configurazione attuale, la CDU dovrà fare concessioni significative ai socialdemocratici, soprattutto in materia di immigrazione.
Merz, che in campagna elettorale aveva tentato di posizionarsi su una linea anti-immigrazione per sottrarre voti all’AfD – strategia peraltro inefficace, poiché l’elettorato tende a preferire l’originale alla copia – si troverà costretto a rivedere tali posizioni.

I socialdemocratici, infatti, mantengono un orientamento immigrazionista. Oltre a questa dinamica politica, la CDU non può ignorare le istanze della Confindustria tedesca, tradizionalmente favorevole a quote rilevanti di immigrazione e strettamente legata al partito democristiano.

Per preservare l’alleanza con il mondo industriale, la CDU dovrà quindi accogliere le richieste di questo segmento, economicamente e politicamente più influente rispetto a una base elettorale numericamente importante ma con minor peso decisionale, pur manifestando essa una certa refrattarietà all’immigrazione percepita come “incontrollata”.

Alternative für Deutschland (AfD) ha cercato di affermarsi come un’alternativa politica concreta, e il raggiungimento del 20% dei consensi, pari a circa 10 milioni di voti, testimonia un parziale successo in questo intento, avendo raddoppiato i propri voti rispetto alla tornata elettorale di cinque anni prima.
Sebbene ogni formazione politica presenti contraddizioni interne, l’AfD si caratterizza per una forte critica all’Unione Europea, la promozione di un negoziato con la Russia e la richiesta di porre fine al sostegno militare della NATO all’Ucraina.

Contestualmente, il partito mantiene una posizione di marcata vicinanza a Israele, un atteggiamento quasi obbligato nel contesto politico tedesco.
L’analisi del voto rivela che l’AfD è il primo partito in tutte le regioni orientali della Germania, ovvero i territori dell’ex DDR, dove raggiunge il 30% dei consensi.
Questo dato è particolarmente significativo: il partito, pur essendo fortemente anti-immigrazione, ottiene la maggioranza dei voti proprio nelle aree dove il fenomeno migratorio è meno percepito come un problema urgente, essendo questo più sentito nelle ricche regioni occidentali.

Nelle zone orientali, invece, sono preponderanti altre questioni: la deindustrializzazione, il conflitto culturale tra ceti socialmente conservatori e le élite progressiste dell’Ovest, e un diffuso malcontento verso decisioni politiche che hanno ulteriormente penalizzato l’economia locale.
Tra queste, le scelte di autosabotaggio energetico, con la conseguente crisi economica interna i cui costi ricadono sui segmenti più deboli della popolazione, e l’allineamento incondizionato alla politica estera dell’amministrazione Biden.
Quest’ultimo aspetto include l’accettazione passiva del sabotaggio del gasdotto Nord Stream 2, un atto che ha precluso alla Germania l’accesso al gas russo a basso costo, attribuito inizialmente alla Russia stessa ma la cui responsabilità è oggetto di ampio dibattito.

La Germania, così come l’Italia e il Giappone, sconta ancora oggi, in una certa misura, lo status di paese sconfitto nella Seconda Guerra Mondiale, con una sovranità limitata in ambito NATO e nei confronti degli Stati Uniti.
Nel dettaglio, nei Länder orientali, l’AfD ha ottenuto il 27% (dato leggermente diverso dal precedente 30%, ma comunque indicativo di una forte presenza), la CDU/CSU il 23%. Die Linke, erede storica del Partito Socialista Unificato della Germania Est (SED) e oggi allineata all’agenda globalista, raccoglie il 12%, mantenendo una base elettorale tra le burocrazie dell’ex DDR.
I socialdemocratici si fermano al 12%, il partito di Sahra Wagenknecht, nato da una scissione di Die Linke, ottiene un buon 9%. I Verdi si attestano al 7% e i liberali al 5%.

Nei Länder occidentali, la parte più ricca del paese, la CDU/CSU guida con il 29%, seguita dall’SPD con il 18%. L’AfD, con il 18%, si colloca come terzo partito a pari merito con i socialdemocratici, o secondo a pari merito a seconda delle rilevazioni.
I Verdi ottengono il 13%, Die Linke l’8%, i liberali il 4% e il partito di Wagenknecht il 4%, risultato che, come accennato, ne ha impedito l’ingresso al parlamento nazionale.

È degno di nota che, pur con percentuali inferiori rispetto all’Est, l’AfD risulta essere il primo partito nel bacino della Ruhr, cuore dell’industria tradizionale tedesca, particolarmente colpita dalle politiche di deindustrializzazione e dall’allineamento alle direttive statunitensi.

Analizzando il voto per fasce di reddito ed età, emergono ulteriori elementi. L’AfD è il primo partito tra i lavoratori, con il 38% dei consensi, e tra i disoccupati, con il 34%. Questi dati confermano la sua capacità di attrarre voti nei ceti medio-bassi e socialmente più vulnerabili, in particolare nell’Est del paese, tradizionalmente più vicino alla Russia e con una memoria storica legata all’esperienza socialista, come testimoniato anche dai risultati di Die Linke e del partito di Wagenknecht in queste aree.

Per quanto riguarda le fasce d’età, l’AfD è il primo partito tra i 35-40enni. Questa generazione cova un malcontento attivo verso il sistema attuale, memore di un’epoca precedente all’ondata di digitalizzazione pervasiva, al regime “tecnoliberale”, alla precarizzazione sociale e alla dissoluzione dei legami e delle strutture sociali tradizionali.

Esiste una “memoria genetico-identitaria” che alimenta una malinconia (piuttosto che nostalgia) per quegli anni, spingendo questi elettori verso l’attore politico che meglio interpreta un’ideologia conservatrice, volta a valorizzare aspetti della vita pre-rivoluzione tecnologica.
Inoltre, si rivolgono al partito che rappresenta un immaginario di tessuto sociale meno permeato da una multietnicità che, invece, è più apprezzata dalle fasce demografiche più giovani.

I giovanissimi (18-24 anni) hanno votato in maggioranza (25%) per Die Linke, il partito che più sposa l’agenda globalista in ambito culturale.
All’estremo opposto, la CDU ha vinto le elezioni grazie soprattutto al voto degli over 60 e over 70, che l’hanno scelta rispettivamente al 33% e al 43%.
Da questi dati si evince che, in Germania come altrove, i maggiori sostenitori del sistema sono, per ragioni diverse, i più giovani e i più anziani: i primi perché attratti e inseriti nell’immaginario tecnoliberale, i secondi perché, tendenzialmente conservatori, temono di perdere le garanzie acquisite in caso di cambiamenti economici e sociali.

Ucraina: Il Nodo delle Terre Rare e le Implicazioni Economiche Globali

Le ripercussioni economiche del conflitto in Ucraina si fanno sentire pesantemente sulle economie europee, in particolare attraverso l’aumento del costo dell’energia, il cosiddetto “caro bollette”.
Nonostante la propaganda mainstream continui a dipingere la guerra come un intervento necessario per salvare l’Ucraina, la realtà è che l’Europa si trova privata del gas russo a prezzi accessibili, finendo per dipendere maggiormente da fornitori alternativi, tra cui gli Stati Uniti, a condizioni spesso meno vantaggiose.

Un aspetto cruciale, recentemente emerso nel dibattito, riguarda le terre rare presenti nel sottosuolo ucraino. Si profila uno scenario in cui queste risorse verranno sfruttate intensamente, principalmente da attori statunitensi.
Tale prospettiva si inserisce in un contesto di complessi rapporti economici e di “risarcimenti” richiesti all’Ucraina. Il 17 febbraio scorso, l’Ucraina ha bombardato con missili a lungo raggio di fabbricazione occidentale un terminal petrolifero a Novorossijsk, in Russia.

L’obiettivo era interrompere i rifornimenti di carburante alle truppe russe. Tuttavia, le pipeline di questo oleodotto sono di proprietà di un consorzio kazako in cui figurano, con una quota complessiva superiore al 20%, le multinazionali americane Chevron ed ExxonMobil (oltre a una partecipazione dell’ENI, considerata meno rilevante in questo specifico frangente).
Gli Stati Uniti non hanno lasciato correre questo attacco ai propri interessi e hanno comunicato all’Ucraina che dovrà risarcire questi danni, considerati danni di guerra.

Oltre a ciò, gli Stati Uniti richiedono all’Ucraina la restituzione degli ingenti investimenti effettuati nel paese negli ultimi anni, quantificati in circa 300 miliardi di dollari, ma la richiesta di “rimborso” sotto forma di accesso alle terre rare ammonterebbe a 500 miliardi, includendo una sorta di “interesse”.

L’argomentazione di Washington, veicolata anche da figure come Donald Trump, è che, avendo sostenuto l’esistenza stessa dell’Ucraina per tre anni e avendola difesa dal collasso sotto l’avanzata russa, oltre ad aver subito l’attacco del 17 febbraio, gli USA abbiano diritto a un risarcimento.

Il patrimonio statale ucraino è stimato in circa 10.000 miliardi di dollari, rendendo la richiesta di 500 miliardi apparentemente “sostenibile” da questo punto di vista.
La minaccia implicita è che, in caso di mancato accordo, gli USA ritirerebbero il loro appoggio, lasciando l’Ucraina in balia della Russia.

È importante precisare la natura e la distribuzione di queste risorse. Non tutta la ricchezza ucraina è costituita da terre rare; spesso si fa confusione con altri metalli. Circa il 33% delle terre rare ucraine si trova nei territori attualmente occupati dalla Russia, mentre il restante 67% è nelle aree sotto il controllo di Kiev e, di fatto, della NATO e degli Stati Uniti.
Questi ultimi mirano a sfruttare le risorse nelle zone sotto la loro influenza. Parallelamente, la Russia si è detta disponibile a negoziare con gli americani accordi per lo sfruttamento delle terre rare presenti nei territori da essa controllati in Ucraina, aprendo la possibilità di scambi che potrebbero includere concessioni territoriali o garanzie sulla neutralità ucraina e la sua non adesione alla NATO.

Il dibattito attuale sulle terre rare ucraine emerge in un contesto in cui, fino a poco tempo fa, l’argomento era largamente ignorato dal mainstream.
Già nel 2021, tuttavia, i governi di Germania, Francia e Regno Unito avevano negoziato accordi con l’Ucraina per lo sfruttamento non solo delle terre rare, ma anche dei porti, delle vie marittime e di altre risorse naturali.

Questi paesi, infatti, non hanno finanziato e armato l’Ucraina a titolo gratuito, ma si aspettavano un ritorno economico sotto forma di accesso alle ricchezze del paese. L’intervento più deciso di Trump in questa partita ha, di fatto, scavalcato gli europei in quelli che consideravano contratti ormai acquisiti.

È utile ricordare che le terre rare non sono una prerogativa esclusiva dell’Ucraina. La Groenlandia, ad esempio, è il principale detentore di queste risorse in Europa e, non a caso, è rientrata nelle mire di Trump.
La Danimarca, e quindi l’Unione Europea, possiede ingenti quantità di terre rare sul proprio territorio. Anche la Russia e, soprattutto, la Cina, data la sua estensione, sono grandi proprietarie di queste materie prime strategiche.

L’attuale enfasi sulle terre rare ucraine potrebbe quindi essere, in parte, una narrazione costruita ad arte per dipingere l’amministrazione Trump come “saccheggiatrice”, in contrasto con i governi europei e l’amministrazione Biden, presentati come più “virtuosi”, nonostante anch’essi avessero pianificato lo sfruttamento delle risorse ucraine sin dal 2022.

Un ulteriore elemento da considerare nel coinvolgimento statunitense in Ucraina riguarda gli interessi personali. Hunter Biden, figlio dell’attuale presidente USA, ha avuto ruoli di primo piano, come membro del consiglio di amministrazione e amministratore delegato di Burisma Holdings, una delle principali compagnie del gas ucraine, a partire dal 2014.

La tutela di questi interessi è stata, secondo alcune analisi, uno dei fattori che hanno spinto gli Stati Uniti a un intervento così massiccio nel conflitto. È fondamentale che l’opinione pubblica sia consapevole di queste dinamiche economiche, per comprendere che la guerra condotta dalla NATO contro la Russia non è stata motivata esclusivamente da ragioni umanitarie, ma da rilevanti interessi economici.

L’Europa nel Vortice della Competizione Globale

Le conseguenze delle scelte politiche ed economiche globali si traducono, per i cittadini europei, in un aumento costante del costo della vita, esemplificato dal caro bollette.
Questa situazione non è destinata a risolversi automaticamente con la fine del conflitto militare in Ucraina. Anche se si dovesse raggiungere una tregua o un compromesso, la guerra commerciale condotta dagli Stati Uniti contro l’Europa è destinata a proseguire.

Lucio Caracciolo, direttore di Limes, ha definito l’Unione Europea non tanto un’organizzazione creata per truffare gli Stati Uniti, come sostenuto da Trump, quanto piuttosto una “fondazione americana” e un'”amministrazione antirussa” al servizio degli interessi di Washington.
In politica estera, l’UE agisce come testa di ponte degli Stati Uniti contro la Russia; in politica interna, è considerata dagli USA una “terra di saccheggio”, e le sue classi dirigenti sono tenute ad assecondare questo ruolo.

Quando, in passato, figure come Angela Merkel e, prima di lei, Gerhard Schröder, tentarono di perseguire una politica energetica più autonoma, stringendo accordi con la Russia per la fornitura di gas a prezzi vantaggiosi (come l’intesa tra Schröder e Gazprom), gli Stati Uniti percepirono la Germania come un pericoloso concorrente economico.
Per ripristinare i precedenti rapporti di forza, Washington avrebbe favorito azioni come il sabotaggio del gasdotto Nord Stream, riportando la Germania a uno status di vassallaggio anche sul piano economico.

In questo quadro, l’imposizione di dazi da parte degli Stati Uniti sulle merci europee, una politica perseguita sia da Trump che da Biden (seppur con stili comunicativi diversi), assume un significato preciso.
Nonostante alcuni imprenditori, soprattutto nel settore del lusso italiano, possano ritenere che il posizionamento medio-alto dei loro prodotti li renda meno sensibili a tali misure, il “modo” e il “piglio” con cui queste politiche vengono attuate sono indicativi di una strategia più ampia.

Gli Stati Uniti, indipendentemente da chi governi, sono in una fase di piena reindustrializzazione. Questo processo avviene a scapito dell’Europa, considerata una colonia e una terra di conquista sin dal 1945.
La reindustrializzazione americana è una necessità imposta dalla guerra fredda, per ora non dichiarata militarmente su larga scala, con la Cina.

Mentre molti in Europa percepiscono ancora la Cina come una realtà astratta o arretrata, essa è di fatto la più grande economia del mondo.
Nella competizione globale odierna, non c’è spazio per due egemoni; uno dei due è di troppo. Entrambi i contendenti si stanno armando, anche economicamente, per questo scontro.

L’Europa, in questo scenario, funge da “bancomat” per gli Stati Uniti, fornendo le risorse economiche, attraverso il proprio potenziale produttivo e il proprio “sangue”, per sostenere la sfida americana alla Cina, anche in settori avanzati come l’intelligenza artificiale applicata al militare.

La Nuova Guerra Fredda USA-Cina e il Dominio Tecnologico dell’Intelligenza Artificiale

La guerra fredda del XXI secolo tra Stati Uniti e Cina differisce significativamente da quella del XX secolo tra USA e Unione Sovietica.
L’URSS, pur possedendo un arsenale nucleare in grado di preoccupare l’Occidente e costringerlo a forme di redistribuzione del benessere per mantenere il consenso interno, non era economicamente paragonabile agli Stati Uniti.
Di conseguenza, non erano necessarie le drastiche scelte politiche economiche che Washington sta attuando oggi.

La Cina, al contrario, pur avendo un potenziale nucleare forse inferiore a quello della vecchia URSS (ma comunque sufficiente a “far saltare il banco”), possiede un potenziale economico e finanziario enormemente superiore non solo a quello dell’Unione Sovietica di Krusciov e Breznev, ma anche a quello degli Stati Uniti stessi.

Inoltre, la Cina è alleata della Russia. Quest’ultima, pur avendo un PIL paragonabile a quello dell’Olanda, dispone di una forza militare convenzionale e nucleare di prim’ordine, con un apparato missilistico e aeronautico estremamente moderno ed efficiente.
L’alleanza tra le capacità militari russe e i capitali cinesi rappresenta una seria minaccia per gli Stati Uniti, che non possono permettere il consolidamento di tale asse.

Le recenti mosse politiche di Donald Trump, con il loro caratteristico stile spettacolare, mirano a separare la Russia dalla Cina, cercando di blandire Mosca per renderla un interlocutore meno ostile in caso di escalation del confronto con Pechino, un confronto che prima o poi potrebbe assumere forme “calde”.
Lo strumento principale di questo futuro conflitto sarà l’intelligenza artificiale (IA). L’IA non è semplicemente un bene di consumo per l’intrattenimento giovanile su piattaforme come TikTok; è un’arma, un sistema d’arma, l’ultima frontiera dell’industria bellica.

L’IA è cruciale per affrontare la Cina perché i metodi convenzionali – baionette, cannoni e carne da macello inviata in trincea – sono inadeguati.
La Cina è un paese immenso e densamente popolato: città come Shanghai (41 milioni di abitanti) e Pechino (circa 20 milioni) sono incontenibili con eserciti tradizionali.

Due sole città cinesi superano per popolazione l’intera Italia. Gli Stati Uniti, anche mobilitando tutta la propria popolazione, non avrebbero truppe sufficienti per un controllo militare convenzionale.
È quindi necessario ricorrere a sistemi diversi per intimidire e indebolire l’avversario.
L’IA permetterà agli Stati Uniti di muovere guerra alla Cina bypassando il controllo militare tradizionalmente inteso, basato sul presidio fisico di uomini e mezzi, optando per una guerra di quinta generazione.

La Cina, tuttavia, non è un attore passivo. Anch’essa sta sviluppando intensamente l’intelligenza artificiale, sia per contrapporre un baluardo agli armamenti sofisticati statunitensi, sia per rafforzare il controllo sulla propria popolazione.
In previsione di un conflitto di vasta portata, l’IA servirà a sorvegliare i cittadini, prevenire dissensi e irreggimentare la società.

Il controllo poliziesco del futuro potrebbe non essere più affidato al gendarme umano, che conserva un margine di empatia, ma a sistemi di IA privi di tale caratteristica. Se per un essere umano l’eliminazione fisica di un altro essere umano, anche su ordine, comporta un peso morale, per un’intelligenza artificiale tale compito sarebbe privo di implicazioni emotive.
Questi strumenti militari saranno i protagonisti della guerra futura tra Stati Uniti e Cina, potenzialmente l’ultima grande guerra che l’umanità conoscerà.

Le tempistiche per una piena manifestazione di queste dinamiche conflittuali sono stimate nell’arco di una decina d’anni.
La Cina, peraltro, ha già familiarità con l’applicazione di tecnologie avanzate per il monitoraggio sociale, come dimostrano gli esperimenti sui crediti sociali, sebbene questi siano stati talvolta eccessivamente spettacolarizzati e non rappresentino ancora un sistema pervasivo.

L’intelligenza artificiale, tuttavia, va oltre: ha il potenziale per ridefinire i connotati stessi dell’umanità, e persino per tentare di superarla, poiché un conflitto della portata di quello tra Stati Uniti e Cina difficilmente potrà essere condotto con metodi e limiti “umani”.
Le prospettive, dunque, appaiono complesse e dense di incognite, delineando un futuro in cui la stabilità globale sarà messa a dura prova.

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