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Su Fabbrica della Comunicazione la rubrica Libero Pensiero è cura di Beatrice Silenzi – giornalista e direttore responsabile, qui con Gianluca Spina.

La prospettiva sui più noti casi di cronaca nera italiani, a partire dalla recente riapertura del caso del delitto di Garlasco presuppone un’analisi che non si limita a riesaminare i fatti, ma li smonta pezzo per pezzo attraverso la lente della psicologia investigativa e del linguaggio del corpo, sollevando dubbi profondi sul sistema giudiziario e mediatico.

Contrariamente a quanto si possa pensare, la decisione di riaprire il caso di Garlasco dopo 18 anni non nasce da nuove prove dirette contro Alberto Stasi.
Spina rivela un retroscena sorprendente: la riapertura è legata a una più vasta inchiesta della Procura di Pavia, denominata “Clean 2”.
Questa indagine, spiega l’esperto, sta scoperchiando un presunto sistema di collusioni tra figure di spicco della precedente procura e ufficiali dei Carabinieri, volto a pilotare e controllare determinate indagini.
Il caso Garlasco sarebbe stato “inserito” in questo filone perché una delle figure chiave coinvolte nell’indagine originaria è emersa anche nello scandalo “Clean 2”.
La vera ragione, quindi, non sarebbe la ricerca della verità sulla morte di Chiara Poggi, ma la necessità di fare luce su un presunto inquinamento investigativo.

Utilizzando la sua competenza, Spina ha analizzato un’intervista televisiva di Stasi, identificando tre micro-espressioni emotive sul suo volto mentre parlava di Chiara: disprezzo, disgusto e rabbia.
Il disprezzo è un’emozione che implica un senso di superiorità morale verso la persona disprezzata. Per Stasi, Chiara era moralmente inferiore. La rabbia e il disgusto, uniti al disprezzo, indicano che il soggetto ritiene di pagare un prezzo ingiusto a causa della condotta della persona disprezzata. Il disgusto, inoltre, è scientificamente collegato nelle stesse aree cerebrali al senso di colpa.

La conclusione di Spina è netta: Stasi era sulla scena del crimine e sa cosa è successo. Il suo senso di colpa potrebbe derivare non dall’aver commesso l’omicidio, ma dal non aver fatto nulla per salvarla. Questo spiegherebbe la complessa miscela di emozioni che, secondo l’esperto, tradiscono la sua versione dei fatti.

Dalla Strage di Erba al Delitto di Perugia

Spina applica lo stesso metodo ad altri casi celebri, evidenziando le fragilità delle conclusioni giudiziarie.

La strage di Erba.
Analizzando la confessione di Rosa Bazzi, Spina nota che i suoi occhi si muovono costantemente verso l’alto a sinistra (la sua sinistra).
Poiché Rosa è mancina, questo movimento oculare indica l’accesso a un’area del cervello legata alla memoria costruita (menzogna), non a quella vissuta.
Secondo Spina, la loro confessione fu estorta facendo leva sul loro basso quoziente intellettivo e sulla paura di essere separati per sempre.
L’intero racconto dell’omicidio, infantile e superficiale, non sarebbe quello di due assassini, ma di due persone che recitano una parte.

Il delitto di Meredith Kercher.
Anche in questo caso, l’analisi del comportamento degli imputati e delle dinamiche investigative ha mostrato profonde incongruenze, simili a quelle riscontrate a Garlasco.

Un tema centrale dell’intervento di Spina è la critica feroce al modo in cui questi casi vengono gestiti.
Il circo mediatico trasforma le tragedie in un “pot-pourri” o in un'”arena”, dove il pubblico fa il tifo per l’innocente o il colpevole, perdendo di vista la complessità della verità.
Spina denuncia inoltre l’inefficienza delle indagini, sottolineando come in un caso di omicidio non si possa fare affidamento esclusivamente sulla prova scientifica (come il DNA) senza una solida ricostruzione basata su indizi, testimonianze e logica investigativa.

L’incapacità di proteggere una scena del crimine o di approfondire piste alternative mette a rischio non solo la giustizia per le vittime, ma anche la sicurezza di ogni cittadino, che potrebbe trovarsi incastrato in un meccanismo più grande di lui.
L’analisi di Spina non mira a fornire una sentenza alternativa, ma a scuotere le coscienze, dimostrando come, dietro le verità ufficiali, si nascondano spesso scenari inquietanti di superficialità, pressioni e, forse, inquinamenti.
La sua richiesta è chiara: la pretesa della verità è un diritto di tutti, perché la giustizia, quando fallisce, fallisce per l’intera società.

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