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Su Fabbrica della Comunicazione, la rubrica della domenica mattina a cura di Beatrice Silenzi – giornalista e direttore responsabile – con Enrica Perucchietti si chiama L’Altra Domenica.
Nel dibattito sull’alimentazione contemporanea, le tensioni tra tradizione, innovazione, industria e salute stanno raggiungendo un nuovo apice. Negli Stati Uniti, la proposta politica di Robert F. Kennedy Jr. segna un punto di rottura con le pratiche alimentari dominanti, mirando a contrastare l’influenza delle lobby e dei grandi gruppi industriali nella diffusione di cibi raffinati, bevande addizionate, dolcificanti e sostanze potenzialmente tossiche.
L’agenda salutista di Kennedy ha sollevato un dibattito rilevante anche in Europa, dove l’“americanizzazione” della dieta si sta insinuando in modo silenzioso ma inesorabile.
La cultura alimentare statunitense, costruita su comodità, velocità e produzione industriale di massa, è diventata un modello esportato ovunque, soprattutto nei paesi occidentali. Dagli anni ’80 in poi, si è diffusa l’abitudine al consumo di cibi ultraprocessati, merendine zuccherate, snack preconfezionati, bevande gassate e piatti pronti riscaldabili in microonde.
Un fenomeno che, inizialmente limitato alla cultura americana, ha progressivamente trovato spazio anche in Europa, dove si stanno abbandonando le tradizioni gastronomiche locali in favore della praticità.
L’Italia, pur vantando una delle cucine più sane e apprezzate al mondo, non è immune. I bambini e gli adolescenti, in particolare, sono bersagli preferiti dell’industria alimentare, bombardati da prodotti ipercalorici e poveri di nutrienti.
Si stima che il 60-70% della dieta quotidiana dei giovani sia costituita da cibo raffinato, con effetti devastanti sulla salute pubblica: obesità, diabete, disturbi metabolici e infiammazioni croniche sono in costante aumento.
Il ruolo della politica nella regolamentazione alimentare
Kennedy Jr., nella sua agenda politica, promette di contrastare queste tendenze attraverso la divulgazione di dati sensibili, l’eliminazione di sostanze dannose e il ritorno a un’alimentazione più naturale. Tra le sue proposte vi è anche l’abolizione della fluorizzazione delle acque potabili, considerata da alcuni ricercatori come una pratica dannosa e superata.
La sua battaglia, tuttavia, si scontra con un sistema strutturato su interessi economici enormi. Le industrie alimentari e farmaceutiche statunitensi sono spesso intrecciate con gli apparati di controllo federali, come la Food and Drug Administration (FDA), attraverso meccanismi noti come “porte girevoli”, ovvero il passaggio di personale dirigente tra imprese private e enti regolatori pubblici. Questo crea inevitabili conflitti di interesse e rende difficile l’applicazione di norme realmente indipendenti.
Uno degli aspetti più controversi del dibattito alimentare è la questione dell’obesità. Se da un lato è ormai evidente la sua correlazione con patologie cardiovascolari, diabete, problemi articolari e ridotta aspettativa di vita, dall’altro si assiste a un tentativo culturale di “sdoganare” l’obesità come una semplice variante della normalità fisica.
Questo approccio, spesso mascherato da rispetto e inclusività, rischia di oscurare il fatto che l’obesità è una condizione patologica. Il timore di offendere, infatti, impedisce talvolta di comunicare correttamente i rischi per la salute, generando confusione e ostacolando una vera educazione alimentare.
La chimica nel piatto: zuccheri, dolcificanti e additivi
Uno degli elementi chiave del degrado alimentare è rappresentato dall’eccesso di zuccheri. Quando si cerca di ridurne il consumo, spesso si rimpiazzano con sostanze artificiali altrettanto, se non più, dannose.
È il caso dell’aspartame, un dolcificante sintetico che alcuni studi associano a effetti neurotossici e metabolici. Eppure, la sua diffusione è capillare, nascosta dietro sigle criptiche sulle etichette dei prodotti “light” o “zero zuccheri”.
L’industria, quando costretta a rispondere a una crescente sensibilizzazione pubblica, non cambia rotta, ma modifica la facciata: se una bibita zuccherata viene demonizzata, ecco che nasce la sua versione “dietetica”, spesso peggiore in termini di impatto sulla salute.
La strategia è sempre la stessa: mantenere inalterati i profitti offrendo al consumatore un’illusione di benessere.
La spinta delle lobby e il marketing a misura di bambino
L’industria alimentare ha affinato tecniche di marketing per influenzare le scelte dei consumatori fin dalla più tenera età.
Le porcherie industriali – caramelle, snack, merendine – sono esposte strategicamente all’altezza degli occhi dei bambini nei supermercati, soprattutto in prossimità delle casse.
Il bambino viene stimolato visivamente, allunga la mano, insiste con i genitori, e il prodotto viene acquistato.
Questa logica si riflette anche sulla pubblicità: mascotte colorate, confezioni accattivanti, gadget e premi fedeltà spingono i consumi creando abitudini disfunzionali sin dall’infanzia.
Eppure, nonostante le conoscenze acquisite sul danno provocato da un’alimentazione scorretta, le istituzioni faticano a imporre limiti reali all’industria.
Nel lessico sanitario corrente, la parola “prevenzione” ha subito un’evidente manipolazione. Oggi viene spesso utilizzata per indicare esami diagnostici precoci, come screening oncologici o controlli annuali, che però nulla hanno a che vedere con la prevenzione autentica.
Quest’ultima dovrebbe consistere nell’adozione di stili di vita sani, alimentazione equilibrata, attività fisica regolare, riduzione dello stress e consumo responsabile.
La prevenzione reale non è redditizia per le multinazionali e viene quindi relegata in secondo piano. Non esistono campagne di massa che incentivino la cucina naturale, la riscoperta delle tradizioni culinarie locali, o la riduzione del consumo di prodotti ultraprocessati.
Al contrario, si spinge verso l’uso scorciatoia di farmaci come lo *Ozempic*, inizialmente concepito per i diabetici, oggi abusato da chi cerca di dimagrire rapidamente senza modificare le proprie abitudini.
Le mode alimentari: carne sintetica, insetti e surrogati
Parallelamente, si stanno affermando nuove mode “salutiste” come la carne sintetica e il consumo di insetti.
La narrazione ufficiale li presenta come soluzioni etiche e sostenibili al problema della produzione intensiva di carne. Eppure, il loro ingresso nei mercati occidentali solleva interrogativi culturali, ambientali e sanitari.
Mangiare cavallette o locuste è normale in alcune culture asiatiche, ma in Occidente si scontra con radici gastronomiche profonde e difficilmente sradicabili.
La carne sintetica, dal canto suo, si propone come alternativa “pulita”, ma la sua composizione chimica e il processo industriale sollevano dubbi legittimi.
Che senso ha scegliere il vegetarianismo per ragioni etiche se poi si finisce per mangiare prodotti che imitano il sapore della carne, ma sono ottenuti in laboratorio con ingredienti di dubbia trasparenza?
In questo contesto, l’ossessione per la comodità e la scorciatoia emerge ancora una volta: si vuole mangiare senza cucinare, dimagrire senza rinunce, e vivere senza responsabilità. Ma tutto ha un prezzo.
### La necessità di una rieducazione alimentare
Le soluzioni a questa crisi alimentare non possono essere affidate esclusivamente alla politica o all’industria. Serve un cambiamento culturale profondo, un ritorno alla consapevolezza del cibo come nutrimento, come cultura, come espressione di comunità.
È necessario insegnare ai cittadini, sin da piccoli, cosa significa alimentarsi in modo sano, distinguere un ingrediente naturale da uno ultraprocessato, saper leggere un’etichetta, riconoscere il valore del cibo cucinato in casa.
Questo comporta una riscoperta dei saperi tradizionali, una valorizzazione della stagionalità e della filiera corta, un rapporto diretto con il territorio. Occorre contrastare l’omologazione imposta dalle multinazionali e riprendersi la libertà di scegliere in modo consapevole.
Mangiare bene è un atto politico, culturale, sociale. E richiede coraggio, conoscenza e determinazione per sottrarsi alle lusinghe della comodità e dell’industria. Solo così sarà possibile costruire un futuro alimentare più sano, più giusto e più umano.
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