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Su Fabbrica della Comunicazione, la rubrica Viaggio nella Storia Contemporanea è a cura del giornalista e scrittore Franco Fracassi – già co-autore di una collana di 12 volumi dal titolo “Nei Secoli Brevi” – che commenta con Beatrice Silenzi fatti e personaggi degli ultimi 120 anni.

C’è un’aura quasi mitologica che avvolge gli anni Ottanta. Per molti, specialmente in Italia, rappresentano un’epoca di spensieratezza dorata, un decennio di edonismo pop, di giacche con le spalline e di synth che pulsavano dalle autoradio. Eppure, dietro questa facciata scintillante, si cela una realtà storica infinitamente più complessa e brutale, un decennio “interlocutorio”, come lo definisce Fracassi, che ha agito da cerniera tra le tensioni del dopoguerra e le crisi globali del nostro tempo.

È in quegli anni che sono state gettate le fondamenta di molti dei conflitti e delle dinamiche geopolitiche che oggi dominano le cronache.

La discussione, innescata dal monumentale lavoro di Fracassi, “Nei secoli brevi” (realizzato con Paola Pentimella Testa e Massimo Lauria), si concentra sul decennio 1980-1990, svelando come la narrazione comune sia spesso una semplificazione pericolosa.
Al centro di questo crocevia storico si erge una figura tanto carismatica quanto controversa, un uomo che ha cambiato il volto del Medio Oriente e il rapporto tra Islam e Occidente: l’Ayatollah Ruhollah Khomeini. Analizzare la sua ascesa non significa solo raccontare la Rivoluzione Iraniana del 1979, ma svelare un intricato gioco di potere in cui l’Occidente, lungi dall’essere uno spettatore passivo, ha agito da regista occulto, commettendo errori di calcolo le cui conseguenze paghiamo ancora oggi.

Lo Splendore Corrotto dello Shah

Per comprendere l’arrivo di Khomeini, è indispensabile capire chi ha preceduto. L’Iran, prima del 1979, era il regno di Mohammad Reza Pahlavi, lo Shah.
Per l’Occidente, era un faro di modernità e stabilità in una regione turbolenta. Era il gendarme del Golfo Persico, un baluardo contro l’influenza sovietica, un alleato strategico seduto su immense riserve di petrolio.
La sua corte era sfarzosa, le sue feste leggendarie – come la celebrazione dei 2500 anni dell’Impero Persiano a Persepoli nel 1971, un evento di opulenza quasi surreale in un paese con vaste sacche di povertà.

Uno splendore marcio nelle fondamenta. Come Fracassi allude, il potere dello Shah non era un prodotto organico della storia iraniana, ma il risultato diretto di un’operazione di ingerenza straniera.
Nel 1953, il Primo Ministro democraticamente eletto, Mohammad Mossadeq, che aveva osato nazionalizzare l’industria petrolifera sottraendola al controllo britannico (all’epoca Anglo-Iranian Oil Company, futura BP), fu deposto da un colpo di stato orchestrato dalla CIA e dall’MI6 (Operazione Ajax).
Lo Shah, che era fuggito dal paese, fu reinstallato sul trono. Da quel momento, il suo regime divenne sinonimo non solo di allineamento con l’Occidente, ma anche di una spietata repressione interna.
La SAVAK, la sua polizia segreta addestrata da americani e israeliani, divenne famigerata per le torture, le sparizioni e l’eliminazione sistematica di ogni forma di dissenso, dai liberali ai comunisti, fino agli oppositori religiosi.

Questa ricchezza ostentata, la corruzione dilagante e la brutale repressione crearono una miscela esplosiva di risentimento.
La modernizzazione forzata e laicista dello Shah alienò le fasce più tradizionali e religiose della popolazione, mentre la sua sottomissione politica ed economica all’America offese profondamente l’orgoglio nazionalista persiano.
In questo brodo di coltura, la Rivoluzione non fu un fulmine a ciel sereno, ma la conclusione inevitabile di decenni di rabbia repressa.

La Scelta dell’Occidente: Meglio un Ayatollah che un Comunista

La narrazione occidentale ha spesso dipinto la Rivoluzione Iraniana come un monolitico trionfo del fondamentalismo islamico. La realtà, come emerge dall’analisi di Fracassi, è ben diversa.
La rivolta contro lo Shah fu un’alleanza eterogenea e inizialmente trasversale: studenti laici, intellettuali liberali, nazionalisti, militanti del partito comunista Tudeh e, naturalmente, il potente clero sciita guidato dalla figura in esilio dell’Ayatollah Khomeini.

Qui si consuma il calcolo cinico e fatale dell’Occidente. Di fronte al crollo del loro alleato, Stati Uniti e Gran Bretagna si trovarono di fronte a un bivio: un Iran potenzialmente comunista, allineato con Mosca, o una repubblica islamica guidata da un anziano e austero religioso.
La scelta fu immediata e, col senno di poi, catastrofica. “Hanno caricato Khomeini su un aereo e lo hanno portato loro in Iran,” afferma Fracassi, sintetizzando un’operazione complessa in un’immagine potentissima.

L’Ayatollah, che per anni aveva fomentato l’opposizione da Parigi, fu visto come il “male minore”, un “utile idiota” che, una volta al potere, sarebbe stato controllabile o, nella peggiore delle ipotesi, avrebbe creato un caos che non avrebbe beneficiato l’Unione Sovietica.
L’Occidente non comprese, o sottovalutò gravemente, la profondità del radicamento di Khomeini e la potenza del suo messaggio, che fondeva l’identità religiosa sciita con un virulento anti-imperialismo.

Una volta tornato in patria, Khomeini non impiegò molto a sbarazzarsi dei suoi scomodi compagni di viaggio. I comunisti, i liberali e tutti coloro che avevano combattuto al suo fianco per rovesciare lo Shah furono epurati, imprigionati o giustiziati. La rivoluzione divorò i suoi figli, lasciando il campo libero all’instaurazione della prima, moderna teocrazia.

Il Duplice e Contraddittorio Lascito di Khomeini

Il personaggio Khomeini, e il regime che ha forgiato, non può essere compreso se non se ne analizza la sua intrinseca duplicità.
È un Giano Bifronte il cui volto ha definito non solo l’Iran, ma l’intero scacchiere mediorientale.

Da un lato, c’è il volto del teocrate oscurantista. Questo è il volto che l’Occidente conosce meglio e che più teme. È il regime che impose il velo obbligatorio (hijab), che istituì le Guardie della Rivoluzione (Pasdaran) come milizia ideologica, che perseguitò le minoranze e che considerava i diritti umani un concetto decadente e occidentale.
È il Khomeini che nel 1989 emise la fatwa contro lo scrittore Salman Rushdie per il suo romanzo “I versetti satanici”, una condanna a morte globale che scioccò il mondo e dimostrò la portata transnazionale della sua ideologia.
Questo è l’Iran che, dal punto di vista dei diritti civili, rappresenta un regresso spaventoso, dove le donne lottano per la libertà e gli omosessuali vengono perseguitati.

Dall’altro lato, però, c’è il volto del nazionalista e del riformatore sociale, un aspetto che la narrazione occidentale ignora quasi completamente, ma che è fondamentale per capire la longevità del regime.
Come sottolinea Fracassi, una delle prime mosse di Khomeini fu completare ciò che Mossadeq aveva iniziato: la piena nazionalizzazione delle risorse energetiche.

L’Iran smise di essere il bancomat delle “Sette Sorelle” del petrolio. Le immense ricchezze derivanti dal greggio furono, almeno in parte, reinvestite nel paese.
Fu creato un sistema di welfare, furono costruite infrastrutture, e si assistette a una redistribuzione della ricchezza che, pur tra mille contraddizioni e corruzione, migliorò tangibilmente le condizioni di vita delle masse rurali e urbane più povere, che erano state completamente dimenticate dallo Shah.

Questo ha creato una solida base di consenso popolare. Per milioni di iraniani, la Repubblica Islamica non ha significato solo repressione, ma anche la fine dell’umiliazione nazionale e l’accesso a una dignità economica prima sconosciuta.
È questo patto sociale, fondato su nazionalismo e welfare, che spiega perché, nonostante le durissime sanzioni e le periodiche ondate di protesta, il regime degli Ayatollah sia ancora al potere dopo oltre quarant’anni. Ignorare questa seconda faccia significa non capire nulla dell’Iran contemporaneo.

La strategia occidentale in Iran non fu un caso isolato. Fracassi, nel suo intervento, allarga la prospettiva, ricordando come questa tattica di usare il fondamentalismo religioso come arma geopolitica sia una costante della politica estera anglo-americana.
Egli cita il caso dell’Egitto e di Gamal Abdel Nasser. Negli anni ’50 e ’60, Nasser promuoveva il “panarabismo”, un’ideologia nazionalista, laica e socialista che mirava a unire il mondo arabo in un blocco indipendente sia da Washington che da Mosca.
Per contrastarlo, l’Occidente appoggiò e finanziò segretamente la nascita e la diffusione dei Fratelli Musulmani, un’organizzazione che opponeva al nazionalismo laico di Nasser un’identità panislamica religiosa.

Lo schema è lo stesso: di fronte a un nemico laico e di sinistra (il comunismo in Iran, il nasserismo in Egitto), si sceglie di armare e fomentare il suo avversario religioso, ritenendolo più primitivo e quindi, in ultima analisi, più gestibile.
Questa strategia ha prodotto mostri che sono poi sfuggiti al controllo dei loro creatori, dall’Iran di Khomeini all’Afghanistan dei Talebani (originariamente armati dagli USA contro i sovietici) fino ad Al-Qaeda e all’ISIS.
L’Occidente ha sistematicamente preferito incendiare il mondo con il fuoco della religione piuttosto che vederlo cadere sotto l’influenza del socialismo, lasciandoci in eredità un mondo di conflitti identitari e religiosi apparentemente insanabili.

Questo ci porta a un’ultima, cruciale riflessione sollevata da Fracassi: l’ipocrisia dell’informazione e la narrazione a senso unico.
L’Occidente si erge a paladino dei diritti umani, condannando la fatwa contro Rushdie, ma rimane in silenzio, o addirittura plaude, quando vengono stilate liste di proscrizione altrove.
Fracassi menziona, con amarezza personale, la “lista degli uccisori” ucraina del sito Myrotvorets, in cui figurano giornalisti, intellettuali e politici (incluso lui stesso) etichettati come “nemici dell’Ucraina”. Formalmente, non è una fatwa religiosa, ma nella sostanza la logica è la stessa: l’indicazione di un bersaglio, la demonizzazione dell’avversario e la sua delegittimazione come interlocutore.

Perché un atto è considerato un’aberrazione terroristica e l’altro un legittimo strumento in un conflitto?
La risposta risiede in chi controlla la narrazione.
I media mainstream, come critica Fracassi, hanno abdicato al loro ruolo di “quarto potere”, diventando semplici casse di risonanza delle veline governative.
La complessità viene sacrificata sull’altare della propaganda. Così, l’Iran diventa semplicemente “l’Impero del Male”, senza alcun tentativo di analizzarne le contraddizioni interne, le ragioni storiche della sua traiettoria e il ruolo che noi stessi abbiamo giocato nel crearlo.

Gli anni Ottanta, quindi, non furono solo un decennio di edonismo e musica pop. Furono il laboratorio in cui si sperimentarono e si consolidarono le strategie geopolitiche che hanno partorito il mondo instabile di oggi.
L’ascesa di Khomeini e la nascita della Repubblica Islamica d’Iran non sono la storia di un popolo impazzito che sceglie volontariamente l’oscurantismo, ma il risultato di un cocktail letale di oppressione interna, orgoglio nazionale ferito e, soprattutto, cinica ingerenza straniera.

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