di GIORGIO PANDINI

La ricerca di forme di vita possibili oltre lo spazio terrestre ha compiuto, in poco tempo un significativo passo in avanti e molto lo si deve alla missione Mars 2020 della NASA.
Il rover Perseverance, esplorando il cratere Jezero, ha prelevato il suo ventiduesimo campione di roccia: frammento che ha catalizzato un intenso dibattito tra gli scienziati dell’agenzia spaziale statunitense.
Un particolare minerale, denominato Cheyava Falls in omaggio a una cascata del Grand Canyon, potrebbe racchiudere indizi cruciali sull’esistenza di vita microbica sul Pianeta Rosso, miliardi di anni fa.

Un ritrovamento che accende nuove speranze perché il minerale, prelevato il 21 luglio, presenta caratteristiche chimiche e strutturali potenzialmente riconducibili a sostanze di origine biologica.
Per la NASA, si tratta di qualità che rispondono alla definizione di una testimonianza di vita antica.
Ken Farley, scienziato del progetto Perseverance, ha definito Cheyava Falls la roccia “più enigmatica, complessa e potenzialmente rilevante mai esaminata dal rover”.

Il ritrovamento è avvenuto nella zona settentrionale della Neretva Vallis, un’antica valle modellata dall’acqua e Cheyava Falls, con la sua forma a punta di freccia di un metro per sessanta centimetri, mostra distinte macchie bianche irregolari, soprannominate “macchie di leopardo”, contornate da un alone di ferro e fosfato.

Tali formazioni suggeriscono reazioni chimiche di ossido-riduzione: processi che i microbi potrebbero aver impiegato come fonte di energia.
Si trovano immerse in strisce di ematite, minerale che attribuisce a Marte il suo colore ruggine, e affiancate da consistenti venature bianche di solfato di calcio, un composto inorganico capace di preservare materiale organico dalle radiazioni ultraviolette.

Il campione porta con sé prove evidenti del passaggio dell’acqua, sebbene gli scienziati non siano ancora riusciti a stabilire con esattezza le modalità di formazione o l’influenza delle rocce vicine sulle caratteristiche osservate.
Si ipotizza che Cheyava Falls si sia inizialmente depositata come fango-argilla, infiltrandosi nelle fessure di una roccia preesistente e cementando al suo interno composti organici.

L’evidenza di “processi acquosi”, insieme a indizi di reazioni chimiche di ossido-riduzione, ha spinto gli studiosi a considerare la possibilità di trovarsi di fronte a potenziali segni di vita. Un ulteriore elemento che ha stuzzicato la curiosità del team NASA sono le venature della roccia, ricche di minuscoli cristalli di olivina, minerale che si origina dalla cristallizzazione del magma.

Nonostante l’utilizzo di tecnologie avanzate come Pixl (che compie la scansione a raggi X) e Sherloc (con la spettroscopia Raman) per queste scoperte, persistono dubbi sull’origine.
Le molecole di carbonio, pur essendo fondamentali per l’emergere della vita, potrebbero invece derivare da processi non biologici.

Teresa Fornaro dell’INAF di Arcetri, scienziata partecipante alla missione NASA, sottolinea che “gli strumenti a bordo dei rover hanno capacità limitate ed è estremamente difficile riuscire a capire se in questi campioni siano davvero presenti biofirme dalle analisi in situ.”
Per fugare ogni incertezza, il ritorno sulla Terra sarà fondamentale per condurre analisi dettagliate nei laboratori più avanzati.

Il piano per il rientro di questi minerali, però, potrebbe avere costi considerevoli, al momento stimati in 11 miliardi di dollari.