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Su Fabbrica della Comunicazione, la rubrica della domenica mattina a cura di Beatrice Silenzi – giornalista e direttore responsabile – con Enrica Perucchietti si chiama L’Altra Domenica.

Il film del 1972 di Marco Bellocchio, “Sbatti il mostro in prima pagina”, con Gianmaria Volontè, continua a offrire una chiave di lettura desolantemente attuale sul modus operandi di una certa stampa.
La pellicola, e il concetto che incarna, evidenziano un legame persistente e problematico tra media, politica, e talvolta forze dell’ordine, nella manipolazione dell’informazione, specialmente quando si tratta di casi di cronaca nera.

L’obiettivo, ieri come oggi, sembra essere quello di “sbattere il mostro in prima pagina”, ovvero di identificare, costruire e spettacolarizzare una figura colpevole, spesso sacrificando la complessità dei fatti e l’etica giornalistica sull’altare dell’audience e dell’agenda setting.
Questo meccanismo non solo deforma la percezione pubblica della realtà, ma alimenta un circolo vizioso di paura, indignazione e semplificazione estrema, tenendo il pubblico letteralmente incollato allo schermo, affamato di dettagli pruriginosi e conferme alle proprie paure.

Il “Mostro” NoVax: Quando l’Etichetta Prevale sulla Notizia

Un recente caso di cronaca nera, un omicidio avvenuto alle porte di Torino, a Grugliasco, offre un esempio emblematico di come la stampa possa distorcere la realtà per adattarla a narrazioni preconcette.
La vittima, una donna, è stata uccisa, e il caso è stato immediatamente classificato come femminicidio, una prassi comune quando una donna muore per mano di un uomo. Ciò che ha destato perplessità è stata l’enfasi posta da alcuni quotidiani locali e nazionali su un dettaglio apparentemente irrilevante: l’omicida era un “NoVax”.

Un articolo in particolare, ripreso da diverse testate, ha letteralmente “sbattuto il mostro in prima pagina” focalizzandosi su questa etichetta.
La domanda sorge spontanea: cosa c’entra l’essere NoVax con il commettere un omicidio? Assolutamente nulla.
L’uomo avrebbe potuto essere un tifoso della Juventus, un cattolico praticante, un appassionato di Scientology; nessuna di queste caratteristiche avrebbe avuto attinenza con il delitto, eppure la stampa ha scelto di evidenziare la sua posizione sui vaccini.

Questa scelta editoriale non è casuale. Negli ultimi anni, la figura del “NoVax” è stata spesso presentata come il “mostro prediletto” da un certo tipo di giornalismo, un capro espiatorio su cui convogliare paure e divisioni sociali.
Sottolineare che l’omicida era NoVax ha permesso di rafforzare questa narrazione, associando implicitamente una posizione sanitaria a una presunta pericolosità sociale o devianza comportamentale.

L’uomo, a quanto pare, soffriva di depressione, era in cura e aveva sospeso i farmaci. Questi elementi, che potrebbero fornire un contesto psicologico al gesto, sono passati in secondo piano rispetto all’etichetta “NoVax”.
Si è assistito a una patologizzazione del dissenso, o meglio, di una sua manifestazione (l’essere NoVax), legandola arbitrariamente al crimine commesso.
Addirittura, si è tirato in ballo il fatto che potesse essere anche un “complottista” e che il suo stato fosse peggiorato dopo il Covid.

Questo tipo di giornalismo, che incasella e stigmatizza, non fa altro che alimentare la confusione e la disinformazione.
Si suggerisce implicitamente che esista una correlazione tra l’essere NoVax, complottista, e il commettere atti violenti, un’insinuazione pericolosa e priva di fondamento.
L’obiettivo sembra essere quello di mettere in guardia il pubblico (“fate attenzione donne ai mariti o compagni NoVax”), creando un allarme sociale basato su etichette piuttosto che su analisi concrete dei fattori di rischio legati alla violenza.

Questo approccio rappresenta una forma di giornalismo becero, che abdica al suo ruolo di informare correttamente per inseguire facili sensazionalismi e confermare pregiudizi.
È un meccanismo che si è visto all’opera innumerevoli volte: si seleziona un dettaglio, lo si isola dal contesto, lo si ingigantisce e lo si trasforma nel tratto distintivo del “mostro” di turno.

Il Caso Garlasco: La Spettacolarizzazione Infinita della Cronaca

Un altro esempio eclatante di come la cronaca nera venga trasformata in uno spettacolo senza fine è il caso di Garlasco, con protagonista Alberto Stasi.
Anche in questa vicenda, che ha tenuto banco per anni, si assiste a una continua riproposizione mediatica, nonostante una condanna definitiva.
La fame di “popcorn e patatine fritte” del pubblico sembra insaziabile, e i media sono pronti a soddisfarla, protraendo la narrazione ben oltre i limiti della decenza e della pertinenza informativa.

Il meccanismo è quello di generare continuamente nuovi “scoop”, nuove “piste” investigative, spesso al limite dell’assurdo. Si parla di servizi segreti, di questioni esoteriche, di connessioni massoniche, di elementi spirituali e criminali inediti.
Ogni giorno, o quasi, emerge un “qualcosa di nuovo”, un input che riaccende l’interesse e tiene viva la fiamma della curiosità morbosa.

Questa fame di novità, anche quando inconsistenti, solleva una domanda cruciale: è davvero necessario portare uno scoop ogni giorno per poter essere seguiti dal pubblico?
La risposta, per un certo tipo di media, sembra essere affermativa. L’informazione, in questi contesti, diventa totalmente spettacolarizzata. Esiste una morbosità intrinseca nel trattare i casi di cronaca, una tendenza a scavare nel torbido, a volte con un evidente imbarazzo da parte di chi, pur dovendo raccontare i fatti, vorrebbe mantenere un approccio etico.

Ci sono colleghi, invece, che sembrano trovarsi a proprio agio in questo tipo di giornalismo, pronti a buttarsi nella mischia con microfoni nascosti, a cercare di strappare la battuta ai familiari della vittima, a invadere la sfera privata del dolore.
Questo approccio sconfina spesso nello “sciacallaggio mediatico”, una pratica che non mostra alcun pudore o rispetto per la sofferenza altrui. Si sbatte il mostro in prima pagina anche senza avere la certezza della sua colpevolezza, o si continua a farlo anche dopo una condanna, pur di mantenere alta l’attenzione.

La deontologia professionale viene sacrificata sull’altare dell’audience. Un esempio storico di questa spettacolarizzazione è il “plastico” utilizzato da Bruno Vespa per il delitto di Cogne, un modello scenografico che permetteva di visualizzare e drammatizzare la scena del crimine.
Oggi, quella stessa logica viene applicata, con modalità diverse ma con lo stesso intento, anche al caso Garlasco.
Si crea una sorta di soap opera, un feuilleton giudiziario che si autoalimenta, dove i fatti reali si mescolano a congetture, illazioni e pura fiction.
Si arriva a dire tutto e il contrario di tutto, etichettando chiunque diventi il “mostro” da criminalizzare o demonizzare.

Alberto Stasi, ad esempio, fu ribattezzato “il biondino dagli occhi di ghiaccio”, un’etichetta studiata per sottolineare ed enfatizzare certe sue caratteristiche, reali o presunte, al fine di togliere empatia al pubblico e presentarlo come un individuo freddo e calcolatore.
L’obiettivo è vederlo con sospetto, come un mostro. Un bravo narratore, un giornalista con una buona penna o un abile oratore, può fare danni inenarrabili manipolando la percezione pubblica.

Nel caso Stasi, si sta assistendo a un ribaltamento: se prima era l’assassino spietato, freddo, su cui pendevano accuse di ogni tipo (parafilia, pedofilia), adesso il “pacchetto” viene spostato su altri, come i familiari della vittima o le “gemelle K”, con la stessa identica modalità copia-incolla.
Questa continua ricerca di nuovi colpevoli o nuovi dettagli morbosi dimostra una pervicacia nel voler mantenere vivo l’interesse a tutti i costi.

Le Insidie del “Dissenso” e la Perdita di Credibilità

Se la stampa mainstream è spesso criticata per la sua tendenza alla spettacolarizzazione, anche il cosiddetto “mondo del dissenso” o dell’informazione alternativa non è esente da problematiche.
Anzi, talvolta, alcune realtà che si propongono come alternative finiscono per veicolare teorie ancora più assurde e prive di fondamento rispetto a quelle mainstream.
Questo rischia di creare un effetto “tutta l’erba un fascio”, per cui anche le voci di dissenso più valide e giornalisticamente corrette vengono screditate a causa degli eccessi di altre.

L’idea stessa di un'”area del dissenso” è problematica, soprattutto oggi, a pandemia conclusa. Se prima poteva avere un senso parlare di voci alternative, ora il rischio è che questo calderone indistinto perda di significato.
Spesso, chi opera in questo ambito finisce per utilizzare le stesse espressioni e gli stessi meccanismi della stampa mainstream, senza offrire una reale alternativa critica.
Si assiste a una sorta di emulazione delle peggiori pratiche del mainstream: la stessa spettacolarizzazione “pulp”, la stessa tendenza a dividere il mondo in bianco e nero, buoni e cattivi.

Le tecniche di manipolazione e sensazionalismo vengono semplicemente “copia-incollate” su piattaforme diverse.
La morbosità non è esclusiva del mainstream; anche nel mondo alternativo si osserva una ricerca spasmodica di “esperti” fantomatici, di notizie non verificate, di atti giudiziari letti superficialmente o per nulla.
I giornalisti, che dovrebbero essere i primi a verificare le fonti e a leggere attentamente gli atti, talvolta si basano su fake news e bufale, costruendo ricostruzioni assurde basate sul nulla.

L’effetto dell’apertura dei cancelli dell’informazione non regolamentata è che, se una notizia falsa viene lanciata, altri la riprendono e la copiano come se fosse oro colato, creando un effetto distorsivo e aberrante.
La spettacolarizzazione dei casi di cronaca porta a trattarli come serie TV o soap opera, un mix tra “Twin Peaks” (con i suoi elementi di morbosità che tenevano incollate le persone) e “Beautiful”. Sembra che non bastino mai i dettagli morbosi che il giornalista fornisce, e il pubblico ne chiede sempre di più, creando una sorta di dipendenza, una droga.
Questa non è informazione, ma una spettacolarizzazione ultra-trash che, tra l’altro, non accenna a fermarsi. Anzi, si dilata sempre di più, diventando progressivamente più morbosa.

La Psicologia della Manipolazione: Empatia Selettiva e Fame di Certezze

Il successo di questo tipo di giornalismo si basa su meccanismi psicologici profondi. Esiste una fame di certezze, un bisogno di semplificazione che porta il pubblico a preferire narrazioni chiare, con un colpevole ben definito e un “mostro” da additare.
L’etichettatura gioca un ruolo fondamentale in questo processo.
Una volta che un’etichetta viene appiccicata (NoVax, complottista, biondino dagli occhi di ghiaccio), essa definisce l’individuo agli occhi del pubblico, precludendo qualsiasi analisi più complessa.

L’ABC dell’etichetta è semplice: se sei etichettato come “NoVax”, quella diventa la tua identità principale, e ogni tua azione viene letta attraverso quel filtro. I media non fanno che rinforzare queste etichette, rendendo difficile per il pubblico mantenere un approccio critico e obiettivo.
Quando si tenta di presentare una visione più sfumata, di analizzare i fatti con equilibrio, cercando un “giusto mezzo”, la reazione di una parte del pubblico può essere di rabbia.

Chi prova a offrire una lettura meno polarizzata viene accusato di essere un “gatekeeper”, di voler nascondere la verità, di non parlare abbastanza di cloni, rettiliani, terrapiattisti o altre teorie alternative.
Questo perché, forse, non c’entrano nulla con la notizia in questione.
Purtroppo, l’asticella delle “cazzate” mediatiche si è alzata a tal punto che, da un lato e dall’altro dello spettro informativo, si ricerca spesso solo la conferma delle proprie convinzioni, anche le più strampalate.

Quando non si forniscono queste “cazzate”, ma si cerca di ragionare su un piano più obiettivo, magari astenendosi dall’esprimere un parere personale e cercando di rimanere il più neutrali possibile (compito quasi impossibile), una parte del pubblico non lo perdona.
Scattano gli insulti, le minacce, i commenti denigratori, perché non viene perdonato il tentativo di uscire da una comunicazione puramente empatica, di pancia, emotiva.
Il pubblico è stato abituato a un’informazione che è tutta emotività, irrazionalità, basata sull’empatia selettiva (verso la vittima, mai verso il presunto colpevole, che deve essere disumanizzato).

Questo modo di fare informazione polarizza ulteriormente il dibattito. Esistono solo i pro e i contro, il bianco e il nero.
Tutte le sfumature, la complessità del reale, si perdono totalmente.
Le tonalità di grigio non esistono più; ci sono solo i super-cattivi (ultra-cattivi) e i super-buoni (buonissimi).
Questa dinamica si traduce in una sorta di “bulimia” informativa: il pubblico viene “ingozzato” di dettagli morbosi ed esagerati, e ne chiede sempre di più. Se si cerca di riportare l’informazione, sia essa cronaca nera o geopolitica, a un livello più obiettivo, la gente si infuria.

L’Urgenza di un Consumo Critico dell’Informazione

La situazione attuale richiede un cambio di paradigma nel consumo dell’informazione. È fondamentale non “bersi” acriticamente qualunque cosa venga raccontata o detta, sia essa proveniente dalla TV, dai giornali o da YouTube.
Questa passività, questa tendenza a recepire senza filtri tutto ciò che ci viene “raccontato”, è pericolosa.
Si tende a prendere una notizia come se fosse un racconto, una fiction, perdendo di vista la necessità di verifica e analisi critica. Bisognerebbe essere un po’ più vigili, meno passivi, diventare soggetti più critici che non si lasciano abbindolare facilmente.

È necessario prestare più attenzione a ciò che viene trasmesso e, magari, andare a cercare conferme o smentite con un po’ più di senso critico.
Questo senso critico non deve sfociare nella paranoia, ma deve guidare nella valutazione del tipo di informazione che si riceve.
L’autorevolezza di una fonte non deriva da un bollino di qualità o dalla presenza su un determinato canale televisivo o YouTube, ma da un certo tipo di coerenza, dal rigore del lavoro svolto, da una serie di elementi che dovrebbero includere anche la deontologia e la professionalità.

È importante anche che chi fa informazione eviti di utilizzare sistematicamente tecniche manipolatorie, tipiche della manipolazione sociale: la regola dell’empatia usata a senso unico, il “divide et impera”, la spettacolarizzazione di qualunque cosa, la polarizzazione dell’opinione pubblica.
Queste tecniche, se usate dal mainstream vengono criticate, ma se usate da fonti “alternative” vengono talvolta accettate acriticamente.

Il terrorismo mediatico, la necessità di presentare ogni evento come terrificante o, all’opposto, come una vittoria già acquisita, sono distorsioni della realtà. Spesso si esagera nel banalizzare il reale, nel perdere le sfumature e la complessità di ciò che ci circonda, perché si sente il bisogno per forza di incasellare tutto in una squadra o nell’altra, in una tifoseria o nell’altra.

Ciò che sta in mezzo, la “ciccia vera” della questione, si perde. Il problema è che la verità, o almeno una sua approssimazione più onesta, raramente sta agli estremi; più spesso risiede proprio in quella complessità che viene sacrificata.
Recuperare la capacità di analisi critica e di apprezzamento delle sfumature è essenziale per non essere meri consumatori passivi di narrazioni precostituite.

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