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La rubrica Libero Pensiero – a cura di Beatrice Silenzi giornalista e direttore responsabile – ospita il ricercatore Riccardo Magnani.
ARTISTI O ARTIGIANI? LA GRANDE TRUFFA DELL’ARTE MODERNA
In un panorama culturale sempre più frammentato e chiassoso, riemerge con forza una domanda antica ma mai così attuale: qual è la linea di demarcazione tra artista e artigiano?
La questione, riaccesa di recente dalla definizione di Renato Guttuso come “artigiano” da parte di un noto personaggio pubblico, scoperchia un vaso di Pandora di fraintendimenti e inversioni di valore che affliggono la nostra società.
Questo dibattito non è una semplice disquisizione terminologica, ma lo specchio di una profonda crisi culturale che ha svuotato di significato concetti un tempo sacri, consegnandoli a un relativismo dominato dal mercato e dalla comunicazione fine a se stessa.
Storicamente, l’arte era concepita come un’emulazione dei canoni della natura
L’artista, fosse esso pittore, musicista o architetto, era colui che riusciva a comprendere e replicare le leggi armoniche dell’universo, creando opere che generavano benessere e bellezza proprio perché in sintonia con l’ordine naturale.
In questa visione, l’artista era un maestro nel “saper fare”, un artigiano sublime capace di infondere la vita nella materia rispettando regole universali.
L’artigianato, in questo senso, non era un concetto minore, ma la base stessa della qualità, l’espressione di un’abilità manuale e intellettuale che mira alla perfezione, all’unicità e alla compatibilità con la natura. Pensiamo ai maestri liutai, ai costruttori di barche in legno o, più semplicemente, al panettone artigianale: prodotti che incarnano un valore intrinseco legato alla cura, alla scelta dei materiali e al rispetto di un processo.
Questa concezione è stata progressivamente erosa
Culture diverse, spesso per ragioni ideologiche o religiose, hanno iniziato a percepire questa emulazione della natura come un limite, svuotando le opere del loro contenuto artistico originale.
Si è così aperta la strada a un relativismo culturale in cui il valore di un’opera non risiede più nella sua aderenza a canoni di bellezza oggettiva, ma nella sua capacità di comunicare un sentire soggettivo, parziale, spesso provocatorio.
L’artista moderno non è più colui che replica la natura, ma colui che la interpreta, la deforma, la nega in nome di una presunta “creatività”.
È in questo solco che si inserisce la logica del mercato. In un sistema che premia l’innovazione a tutti i costi, l’arte è diventata un prodotto da vendere, e per vendere deve stupire, scioccare, essere sempre nuova.
Arriviamo così agli eccessi che conosciamo: la banana di Cattelan attaccata al muro con lo scotch, le opere invisibili o la “Merda d’artista” di Manzoni.
Non si tratta più di arte nel senso classico, ma di operazioni di marketing e comunicazione.
La creatività è diventata sinonimo di provocazione
Come vediamo nelle sfilate di moda con abiti volutamente importabili o nelle campagne pubblicitarie che mirano solo a colpire l’osservatore.
Personaggi come Marina Abramović vengono incensati non per la qualità intrinseca del loro lavoro, ma per la loro capacità di creare un evento mediatico.
Questo meccanismo perverso è alimentato da una società che accetta passivamente questa inversione di valori, spesso guidata da critici d’arte che, come sottolineato nel dibattito, agiscono da promotori commerciali, definendo cosa è arte e cosa non lo è sulla base del proprio giudizio e della propria convenienza.
Figure come Vittorio Sgarbi o Achille Bonito Oliva, al di là delle loro indubbie competenze, hanno contribuito a creare un sistema in cui è il critico a consacrare l’artista, indirizzando il gusto del pubblico e il valore economico delle opere.
La deriva non si limita alle arti figurative.
La musica, con le sue sette note, sembra aver esaurito la capacità di generare novità, come dimostrano talent show come X Factor, dove le canzoni appaiono tutte uguali, prodotte in serie per soddisfare gli interessi commerciali delle case discografiche.
Il cinema attinge a piene mani dal passato, riproponendo remake di film vecchi di decenni per mancanza di idee originali, mentre le piattaforme di streaming ci inondano di una sovrapproduzione di serie che spesso si assomigliano, create per tenerci incollati allo schermo in una sorta di lockdown volontario.
Questa bulimia di contenuti, questa ossessiva ricerca del nuovo, nasce da una condizione profonda: abbiamo perso la capacità di annoiarci.
La noia, un tempo motore della fantasia e della creatività interiore, è oggi vista come un vuoto da colmare a ogni costo.
Come si dà un tablet a un bambino per tenerlo buono, così l’adulto si satura di stimoli esterni per non confrontarsi con i propri pensieri.
Siamo diventati terminali commerciali di un sistema che ci vuole sempre connessi, sempre pronti a comprare il prossimo prodotto, il prossimo marchio, il prossimo consenso.
La soluzione a questa deriva culturale non può che essere individuale. È necessario recuperare la capacità di ragionare con la propria testa, di non accettare passivamente i modelli e le icone che ci vengono proposti solo perché colpiscono il nostro ego o soddisfano un bisogno indotto.
Dobbiamo tornare a distinguere la qualità dal rumore, il contenuto dal contenitore.
Riscoprire il valore dell’artigiano significa rivalutare la competenza, la dedizione e il rispetto per la natura, principi che un tempo erano alla base dell’arte stessa. Forse, oggi, essere “artigiani” è un complimento ben più grande che essere “artisti” nell’accezione svilita che il nostro tempo ha imposto.
Si tratta di un percorso controcorrente, una scelta di consapevolezza per non diventare semplici consumatori in un mercato globale delle vacche, ma esseri umani capaci di riconoscere e creare bellezza autentica.
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