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Su Fabbrica della Comunicazione, la rubrica della domenica mattina a cura di Beatrice Silenzi – giornalista e direttore responsabile – con Enrica Perucchietti si chiama L’Altra Domenica.

Ogni anno, l’8 marzo torna a rappresentare un’occasione per riflettere sul ruolo delle donne nella società contemporanea. Tuttavia, il dibattito che circonda la Festa della Donna è tutt’altro che univoco: c’è chi la celebra come momento di rivendicazione e memoria storica, chi la contesta come celebrazione riduttiva, e chi la considera ormai vuota e retorica.
In un clima culturale fortemente polarizzato, dove ogni parola sembra essere inevitabilmente passibile di critica, anche la discussione intorno alla ricorrenza si frammenta in posizioni contrapposte, segnate spesso da ipocrisie sistemiche e incongruenze sociali.

Le critiche alla Festa della Donna non nascono certo oggi. Da tempo, molti movimenti femministi contestano la scelta di relegare l’attenzione sulla condizione femminile a una sola giornata all’anno. L’idea che “ogni giorno debba essere la festa della donna” è ormai diventata un refrain abituale.

Ciononostante, la data continua a esistere, e con essa si trascinano simboli come la mimosa e iniziative che troppo spesso si riducono a gesti di maniera, più che a una riflessione concreta sulla disuguaglianza di genere.

In particolare, quando la ricorrenza viene declinata nel linguaggio istituzionale o mediatico mainstream, la sua efficacia sembra appiattirsi su una retorica stantia e prevedibile. A mancare è un reale approfondimento sui problemi strutturali che affliggono le donne, sostituito da slogan, eventi patinati e omaggi floreali.

L’ipocrisia del sistema mediatico e culturale

Una delle contraddizioni più evidenti emerse di recente riguarda la rappresentazione delle donne nei grandi eventi culturali internazionali, come la Notte degli Oscar.
Nonostante un apparente impegno del mondo cinematografico verso una maggiore inclusività e attenzione alle tematiche di genere, i fatti raccontano spesso un’altra storia.

Il caso dell’attrice Demi Moore, protagonista del film “The Substance”, è emblematico. Il film ha messo in scena in modo crudo e provocatorio le pressioni esercitate sulla donna per rimanere eternamente giovane e attraente, trattando temi legati alla chirurgia estetica, alla mercificazione del corpo femminile e a una forma di “cannibalismo sociale” nei confronti delle donne. Nonostante l’ampia attesa per una sua eventuale vittoria, l’attrice non ha ricevuto la statuetta.

Ancora più inquietante è stata la scelta, da parte dell’organizzazione, di inserire nei consueti “gift bag” destinate alle attrici candidate un buono da 20.000 dollari per una liposuzione.
Un gesto paradossale, che smentisce clamorosamente qualsiasi tentativo di promuovere l’autodeterminazione del corpo femminile e che ripropone, anzi rafforza, l’ideale tossico della donna sempre magra, giovane e conforme agli standard estetici dominanti.

Un doppio standard persistente

Oltre all’offensiva implicita contenuta nel regalo in sé, colpisce l’asimmetria del trattamento rispetto agli uomini. È difficile immaginare un’analoga iniziativa rivolta al pubblico maschile: buoni per trapianti di capelli o per la riduzione addominale, ad esempio.
La verità è che il corpo femminile resta al centro di una pressione sociale che raramente ha eguali per il genere maschile. La performance estetica della donna è ancora considerata un requisito implicito per l’accettazione pubblica, e questo vale anche – o forse soprattutto – per chi opera nei settori più esposti come il cinema, la moda o i media.

La questione solleva interrogativi non solo sulla superficialità con cui si affrontano temi tanto complessi, ma anche sull’efficacia delle campagne di sensibilizzazione portate avanti da chi, in teoria, dovrebbe denunciare questo tipo di dinamiche.
Il rischio è che il messaggio venga travisato o, peggio, completamente vanificato da scelte organizzative incoerenti e ciniche.

Uguaglianza di genere: uno squilibrio ancora evidente

Tra le questioni più gravi e meno affrontate con la dovuta attenzione figura la disparità lavorativa. In Italia – come in molti altri Paesi – il gender pay gap è ancora una realtà concreta.
Le donne, in media, percepiscono stipendi inferiori rispetto ai colleghi maschi, e faticano ad accedere alle posizioni apicali.
Ma non è solo una questione di soldi: la maternità continua a essere un fattore penalizzante, e le aspettative sociali verso la donna “perfetta” – bella, madre, lavoratrice indefessa e sempre giovane – contribuiscono a creare una condizione lavorativa spesso insostenibile.

A fronte di questo scenario, le battaglie simboliche, come la declinazione al femminile delle professioni o l’inserimento forzato di pronomi neutri, appaiono a molti come delle distrazioni, dei surrogati di emancipazione che non toccano i nodi strutturali del problema.
Se da un lato questi gesti linguistici possono rappresentare segnali di cambiamento culturale, dall’altro rischiano di assorbire energie e visibilità che dovrebbero invece essere rivolte a ottenere risultati concreti, come leggi più eque, servizi di supporto alla maternità, parità retributiva e reale rappresentanza.

Maternità surrogata e mercificazione del corpo femminile

Un tema particolarmente divisivo, ma centrale nel dibattito contemporaneo, è quello della maternità surrogata.
Alcune attiviste sottolineano come questa pratica rappresenti un ulteriore elemento di sfruttamento del corpo femminile, trasformato in un bene commerciabile e messo a disposizione di chi può permettersi di pagare.
Sebbene in Italia la maternità surrogata sia stata recentemente definita “reato universale”, la battaglia per impedirne la legalizzazione o la normalizzazione continua, tra scontri ideologici e tensioni etiche.

Il dibattito su questo tema evidenzia quanto sia difficile mantenere una linea coerente nel discorso sui diritti femminili: da un lato si invoca l’autodeterminazione, dall’altro si lotta contro meccanismi che, pur basandosi su scelte individuali, si inseriscono in un contesto di profonda diseguaglianza economica e culturale.

Negli ultimi anni, la scena pubblica è stata invasa da una proliferazione di sigle, acronimi e linguaggi nuovi volti a descrivere identità e orientamenti un tempo invisibili.
L’acronimo FLINTA – che sta per donne, lesbiche, intersex, non binarie, trans e agender – è solo l’ultimo esempio di questa tendenza.

A molti, tuttavia, questa evoluzione linguistica appare come una degenerazione del dibattito, che sembra più preoccupato di creare categorie sempre più specifiche che di risolvere problemi concreti.
Secondo alcuni osservatori, il fenomeno del wokismo sta attraversando un lento ma inesorabile declino, specie negli Stati Uniti, dove è nato e si è maggiormente diffuso.

In Europa, tuttavia, l’ideologia continua a trovare terreno fertile, soprattutto nei contesti istituzionali e accademici. Il pericolo, segnalano diversi analisti, è che si finisca per alimentare una nuova forma di dogmatismo culturale, capace solo di dividere e polarizzare.
Il rischio maggiore è quello della disarticolazione del reale: mentre si moltiplicano le battaglie simboliche, la vita concreta delle persone – in particolare delle donne – resta imprigionata in meccanismi di diseguaglianza e discriminazione che le sigle non riescono a scalfire.

Una crisi di genere, non solo femminile

La crisi delle identità non riguarda solo le donne. Anche il ruolo dell’uomo contemporaneo è oggetto di ridefinizione e spesso di smarrimento. In un’epoca in cui la virilità viene messa in discussione o ridotta a stereotipo tossico, molti uomini faticano a trovare una nuova collocazione che non sia né machista né completamente priva di identità.

Allo stesso tempo, molte donne, per affermarsi, sembrano sentire il bisogno di imitare modelli maschili esasperati, arrivando talvolta a incarnare tratti aggressivi e autoritari, più che assertivi.
La vera parità, in questa prospettiva, non consisterebbe nel cancellare le differenze, ma nel valorizzare le qualità proprie di ciascun genere senza che nessuno debba scimmiottare l’altro.

Il potere femminile, infatti, non dovrebbe essere definito dalla capacità di competere sullo stesso terreno maschile, ma dalla possibilità di proporre alternative fondate su empatia, cooperazione e visione.
Così come la mascolinità dovrebbe liberarsi da vecchie gabbie culturali e riappropriarsi di una virtù virile non legata al dominio, ma alla responsabilità.

La sfida dei prossimi anni sarà quella di trovare un equilibrio reale tra i generi, senza cadere negli opposti di un machismo aggressivo o di un femminismo sterile e autoreferenziale.
Uguaglianza non significa omologazione, e l’emancipazione autentica non passa attraverso la cancellazione delle identità, ma attraverso il riconoscimento reciproco e il rispetto.

Per farlo, è necessario tornare a discutere di temi concreti: lavoro, salute, educazione, rappresentanza, maternità, libertà di scelta. E farlo senza retorica, senza slogan, senza concessioni all’ipocrisia mediatica.
La Festa della Donna dovrebbe essere l’occasione per ripensare radicalmente il ruolo della donna nella società, non per rimettere in scena, ogni anno, lo stesso copione.

Il futuro della parità di genere non potrà mai essere costruito con le scatole regalo da 20.000 dollari per la liposuzione, ma con politiche, culture e azioni che sappiano andare oltre la superficie e restituire alle donne – e anche agli uomini – la possibilità di essere pienamente se stessi.

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